I residenti e gli ambientalisti tra il Botswana e la Namibia temono i nuovi progetti che l’azienda canadese ReconAfrica ha indetto su gran parte del loro territorio.
Il motivo? Muoiono centinaia di elefanti in Africa.
Nell’ultimo anno, infatti, si contano più di trecento elefanti morti. Le zanne degli animali erano ancora intatte e questo fa escludere atti di bracconaggio. La prospettiva però non è di certo rosea: le autorità forestali sospettano che ci sia del veleno nell’acqua stagnante e scongiurano un disastro ambientale in una delle più grandi aree naturali del continente.
Tra Botswana e Namibia, muoiono centinaia di elefanti: il progetto di ReconAfrica
Il Botswana è una Repubblica dell’Africa meridionale dove il 17% del territorio nazionale è destinato alle riserve naturali e ai parchi. Un’area che vive di turismo per le bellezze naturali presenti sul territorio. Insomma, il Botswana è un piccolo paradiso terrestre che confina con la Repubblica della Namibia, anch’essa ospitante una ricca fauna selvatica.
Durante questi mesi, ReconAfrica ha annunciato la costruzione di nuovi giacimenti che permetteranno l’estrazione petrolifera dai 60 ai 120 miliardi di barili tra i due Stati. Il piano prevede l’affitto di 34mila chilometri quadrati.
La società canadese collabora con i governi nazionali per l’esplorazione di petrolio. Sono utilizzati pozzi che inquinano le risorse idriche, però i governi continuano a rassicurare che non saranno concesse ulteriori costruzioni e che le zone di ricerca non impatteranno in alcun modo sulla fauna selvatica. Ne siamo sicuri?
Voce agli ambientalisti: una gigabomba di carbonio
Decine di migliaia di elefanti africani sono minacciati dai piani di ReconAfrica, ci dicono gli esperti. Secondo gli attivisti, il campo petrolifero devasterebbe non solo gli ecosistemi regionali e la fauna selvatica, ma anche le comunità locali.
“Ogni elemento di questo progetto, dalla costruzione di nuove strade, ai siti di perforazione, passando alle raffinerie, sarà devastante per coloro che dipendono dall’agricoltura e dalla pesca.”
Questo è quanto afferma Nnimmo Bassey, direttore della Health of Mother Earth Foundation e presidente di Oilwatch Africa.
Nelle regioni vivono 200 mila persone, tra cui gli indigeni San, la cui sopravvivenza dipende dal turismo naturalistico, agricoltura e pesca. La notizia dei giacimenti è stata appresa via radio e tramite social media. Oggi, quindi, sono molte le persone che temono di dover lasciare le proprie case. Alcuni esponenti del Fridays For Future, un gruppo con sede nella capitale della Namibia, ha definito il giacimento come «una gigabomba di carbonio».
Acque avvelenate per gli elefanti
La morte di centinaia di elefanti di questi ultimi mesi è ricollegata dagli scienziati alla presenza di alghe tossiche nelle pozze d’acqua dove sono soliti bere gli animali.
Rosemary Alles di Global March for Rhinos and Elephants ha rilasciato queste parole sul Guardian:
“È incomprensibile che la caccia di ReconAfrica ai combustibili fossili sia ancora in corso. Meno di 450.000 elefanti sopravvivono in Africa rispetto ai milioni di non molto tempo fa. 130.000 di questi hanno scelto proprio questa regione come catena domestica e i piani sbagliati di ReconAfrica li immette a un rischio diretto.”
Ci ritroviamo davanti a un nuovo disastro ambientale. Un disastro con conseguenze irreversibili.
Le campagne ambientali per sensibilizzare hanno una risonanza importante, certo, che però si scontrano con i vecchi meccanismi, con i giochi di potere e tristezze di guadagno.
Muoiono centinaia di elefanti e i governi stipulano ancora contratti di fiducia con aziende che prosciugheranno i loro territori.
Ci sarà lavoro, dicono. Verranno rispettate tutte le norme, aggiungono.
A quale prezzo? Ci chiediamo.
Si parla di enormi benefici economici ma ciò danneggerà l’ambiente.
Gli animali muoiono, la fauna selvatica si impoverisce, i movimenti migratori compromettono l’habitat naturale di molte specie.
E noi ne siamo testimoni, ancora una volta. Testimoni e abitanti di un mondo in cancrena di pensieri e di idee pulite.
Maria Pia Sgariglia