Quando la Francia, e poi Vienna, ferite da un attentato terroristico, gocciolavano sangue, il mondo si è stretto loro attorno in un abbraccio di cordoglio. 50 persone decapitate dagli insorti jihadisti nel nord del Mozambico invece non hanno avuto tanta eco. Forse, perché è un paese lontano, non fanno così notizia.
50 persone decapitate nella provincia di Cabo Delgado
Nella provincia di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico, dal 2017 gli scontri tra l’esercito e i miliziani di Al-Shabaab, combattenti dell’ISIS, mietono vittime tra la popolazione civile. Ma dall’inizio del 2020, i ribelli hanno intensificato i loro attacchi di un 300% rispetto all’anno precedente, divenendo sempre più crudeli e disumani. Torture, decapitazioni, smembramenti stanno terrorizzando una regione già consumata da tre anni di violenza.
Secondo i media statali, l’ultimo brutale assalto, in ordine di tempo, è stato portato a capo la scorsa settimana nei distretti di Miudumbe e Macomia. Le testimonianze raccontano di crimini sanguinari e raccapriccianti.
Venerdì notte, un primo gruppo di uomini armati si è abbattuto sul villaggio di Nanjaba. Quando se ne sono andati hanno portato con sé donne e bambini, lasciandosi alle spalle i resti inceneriti delle case date alle fiamme e alcuni cadaveri per terra.
A Muatide erano in corso i riti di iniziazione maschili. Qui i ribelli si sono abbandonati a un vero e proprio massacro durato 3 giorni. Dopo aver dato fuoco alle abitazioni, i guerriglieri, fiutando la paura, hanno dato la caccia agli abitanti del villaggio che avevano cercato di nascondersi nella foresta. I civili catturati sono stati trascinati nel locale campo da calcio e sottoposti a un trattamento macabro e violento. 50 persone sono state decapitate e fatte a pezzi. I miliziani hanno poi sparpagliato i loro resti nei boschi. I corpi smembrati dei ragazzini che prendevano parte ai riti, e dei loro consiglieri, sono stati ritrovati su un’area di 500 metri.
Il Mozambico vive una vera e propria guerra civile
Come sostiene Zenaida Machado, di Human Rights Watch, queste atrocità “purtroppo non sono rare”. Lo scorso aprile, più di 50 persone sono state decapitate o uccise a colpi di arma da fuoco nel villaggio di Xitexi, per essersi rifiutati di unirsi all’insurrezione.
Le informazioni provenienti dalle agenzie stampa controllate dallo Stato sono difficili da confermare in Mozambico. Il governo e le forze armate regolari non permettono l’accesso alla regione a giornalisti e organizzazioni umanitarie. Nonostante questo, i numeri pubblicati lo scorso mese da Amnesty International descrivono un paese devastato dalla “guerra civile”. Il conflitto tra gli estremisti islamici e l’esercito ha provocato “una crisi umanitaria con più di 2.000 persone uccise, oltre 300.000 sfollati interni e 712.000 persone bisognose di assistenza sanitaria. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, più di 350.000 persone stanno affrontando una grave insicurezza alimentare”. Mentre i centri di accoglienza per i profughi sono al collasso.
La comunità internazionale non può rimanere indifferente
In questi anni le forze di difesa mozambicane si sono rivelate inefficaci al momento di contenere la jihad degli insorti. Inoltre, sempre secondo AI, anche i militari del governo hanno commesso abusi delle leggi internazionali, come “torture, sparizioni forzate ed esecuzioni extragiudiziali”.
Sebbene le autorità sostengano che le loro azioni stanno dando risultati, i membri delle organizzazioni per i diritti umani ritengono che lo scenario attuale richieda urgentemente un approccio differente.
Muleta Mwananyanda, vicedirettore di Amnesty International per l’Africa Meridionale, ha lanciato un appello alle autorità mozambicane affinché sia aperta un’investigazione sulla crescente violenza nella provincia di Cabo Delgado, e si è rivolta all’ ONU, chiedendo di intervenire per evitare che, a causa anche dell’incapacità di agire della comunità internazionale, il Mozambico diventi un secondo Ruanda: “Chiediamo alle Nazioni Unite di agire creando urgentemente un meccanismo internazionale indipendente per affrontare i crimini in corso e le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale”.
Dietro gli scontri potrebbe non esserci solo l’estremismo religioso
Osservatori internazionali hanno avanzato l’ipotesi che, dietro al gruppo armato che per primo lanciò un assalto contro la polizia nel distretto di Mocímboa da Praia nel 2017, non ci sia solo fanatismo religioso.
La provincia di Cabo Delgado è una regione estremamente ricca: petrolio, gas e i giacimenti di zaffiri rosa e rubini più grandi del mondo. Questa disponibilità di risorse suscita da sempre l’interesse di aziende occidentali e, come lamenta la popolazione indigena, non ha apportato alcun beneficio ai locali. I tagliagole, che piombano nei villaggi e cercano giovani reclute, approfittano della povertà e del malcontento generato dalle ingerenze e dai soprusi delle multinazionali straniere. Non è quindi da escludere che a muovere i fili della guerriglia siano interessi economici e la volontà di creare instabilità in una zona ricca.
A prescindere dalle ragioni del conflitto, sulla linea del fuoco incrociato tra jihadisti e militari ci sono i civili, gli abitanti dei villaggi, vittime di una sofferenza indicibile, disumana. È fin troppo facile immaginarli. Madri che si vedono strappare i figli dalle braccia, mariti che gridano alle mogli di scappare mentre mani nemiche li trascinano via, vecchi dai corpi magri che, con gli occhi velati di pianto, guardano le loro case, il loro villaggio, tutto il loro mondo, andare in fiamme.
Camilla Aldini