Assorbiti dalla pandemia che mette in pericolo la nostra salute non stiamo rivolgendo la giusta attenzione a fatti politici non proprio irrilevanti
Di Federico Feliziani
Se stessimo vivendo un momento ordinario quanto accaduto in casa del Movimento Cinque Stelle nel fine settimana del 14 e 15 novembre avrebbe monopolizzato per giorni e giorni l’attività dei media.
Abbiamo indiscutibilmente realtà più gravi che assorbono il nostro impegno ma, attenzione: l’emergenza Covid- 19 non ha “frizzato” la politica. E se non utilizziamo contemporaneamente due cannocchiali rischiamo di perdere importanti passaggi della storia politica italiana.
Stiamo parlando degli Stati Generali del Movimento Cinque Stelle, da tempo in programma, poi rinviati e adesso svolti da remoto con una modalità che ormai tutti conosciamo.
Mentre attendiamo la stesura dei verbali dei diversi gruppi di lavoro, alcuni elementi possono dare la dimensione dell’appuntamento politico al quale non abbiamo assistito.
Primo fra questi è il titolo che il Movimento Cinque Stelle ha scelto per l’iniziativa. Il termine “stati generali” ha infatti una connotazione politica ben definita: fu la strategia, utilizzata nelle società monarchiche, per coinvolgere i tre stati sociali ponendo così un contrappeso al potere del sovrano.
Siccome l’attività politica è fatta anche da parole e soprattutto dall’uso di esse viene da chiedersi perché il Movimento Cinque Stelle abbia scelto di chiamare la propria assemblea nazionale “stati generali”. Come a fare intendere la necessità di ancorare il vertice alla base. Un intento un po’ diverso dallo spirito delle origini.
Sarebbe piuttosto affascinante se ci fosse una riflessione del genere dietro agli Stati Generali del Movimento Cinque Stelle. Più semplicemente possiamo supporre come la scelta di un titolo così altisonante sia perché il tradizionale “congresso” avrebbe richiamato l’immagine del vecchio partito: assimilazione che al Movimento non piace.
Se la forma può emanare un profumo “pentastellare” il contenuto pone difronte a un fatto antico. O meglio: al crollo di quanto il Movimento Cinque Stelle ha detto di essere fino a oggi.
Il non partito fondato sul non statuto organizza un evento partitico per eccellenza. Non solo: innesca un dibattito che probabilmente porterà alla costruzione di una struttura propria di un partito avendo già inconsapevolmente l’elemento che ha sempre sostenuto di rifiutare, cioè le correnti.
Lo dimostrano le tesi contrapposte dei vecchi amici Di Maio e Di Battista. Due tesi antagoniste che hanno fior fior di eguali nella storia dell’Italia partitica. Uno su tutti fra i più recenti: Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani di qualche anno fa.
Sarebbe perciò interessante la voce dell’elettorato del Movimento Cinque Stelle. Come vive il lento passaggio da movimento a partito? E come vive il progressivo cambiamento delle fondamenta?
È proprio questo che ci stiamo perdendo distratti legittimamente da altro. La certificazione della fine dell’esperienza movimentista di un soggetto che proprio attraverso questo approccio ha costruito il proprio successo elettorale.
Mentre ci poniamo queste domande abbiamo sotto gli occhi una dinamica storica su cui ci dovremmo appassionatamente interrogare: l’anima più pura di un movimento può reggere la sfida del governo?