2 novembre 1975, morte Pier Paolo Pasolini: l’Italia perse uno dei suoi intellettuali più brillanti. Le modalità del suo assassinio, ancora oggi oggetto di dibattito, hanno lasciato un segno indelebile nella storia del nostro Paese.
Può la morte di un uomo racchiudere la storia di un’epoca? Nel caso di Pier Paolo Pasolini , (5 marzo 1922 – 2 novembre 1975), sì.
Come è noto, fu massacrato nottetempo; l’unico colpevole ufficiale fu Pino Pelosi, detto “la Rana”: il ragazzo che lo scrittore frequentava all’epoca. Più tardi, furono incolpati anche “ignoti”. Era evidente, dallo stato del cadavere, che quell’adolescente mingherlino non poteva aver fatto tutto da solo. La versione ufficiale, però, non andò oltre.
Del resto, non molti intellettuali ebbero la smania di cercare la verità. Addirittura, la presunta morte per mano di un amato “ragazzo di vita” fu considerata il capolavoro di Pasolini. “Persino Marco Pannella ha sostenuto che tornare a indagare sull’omicidio significava rubare a Pasolini anche la sua morte. Per Camillo Langone, giornalista del “Foglio”, significava rompere il bel mistero che l’avvolge.” (Carla Benedetti – Giovanni Giovannetti, Frocio e basta. Pasolini, Cefis, Petrolio, Milano 2016, Effigie edizioni, p. 37).
Ma, a distanza di decenni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, la verità di comodo ancora non convince. E diversi giornalisti si sono dedicati a inchieste in merito. Perché cercare il colpevole, in questo caso, significa scrivere la storia dell’Italia repubblicana.
Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza sono autori di: Profondo Nero (Milano 2009, Chiarelettere). La loro ricerca ritrova i plausibili collegamenti fra l’assassinio di Pasolini e altre morti misteriose: quelle di Enrico Mattei, presidente dell’ENI (Acqualagna, 1906 – Bascapè, 1962) e del giornalista Mauro De Mauro (Foggia, 1921 – scomparso a Palermo nel 1970).
Enrico Mattei si era distinto per una politica di emancipazione dell’Italia e del Terzo Mondo dalle compagnie petrolifere che formavano il cartello “Consorzio per l’Iran” (da lui definite “le Sette Sorelle”). Nel 1945, era stato nominato commissario liquidatore dell’AGIP. Ma Mattei si rifiutò di portare a termine l’incarico. I tecnici dell’Agip gli avevano rivelato che l’esistenza di un pozzo di metano a Caviaga, vicino a Milano, che aspettava di essere sfruttato. In aperta violazione degli ordini ricevuti, Mattei fece cominciare gli scavi per l’estrazione. Le ricerche daranno frutto e l’Agip diventerà Eni (Ente nazionale idrocarburi) nel 1953.
La sera del 27 ottobre 1962, l’aereo su cui Mattei viaggiava col pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista William McHale si schiantò sulle campagne di Bascapè (PV). Testimone dell’incidente fu l’agricoltore Mario Ronchi. Egli raccontò a Fabio Mantica del Corriere della Sera d’aver visto l’aereo incendiarsi in cielo. Ma negò questa versione, dopo essere stato contattato da alcuni dipendenti della Snam (Società nazionale metanodotti), “azienda consociata all’Eni e guidata operativamente da uomini vicini a Eugenio Cefis.” (Profondo Nero, p. 27).
Quel Cefis che sostituì Mattei alla presidenza dell’ENI, adottando una gestione filoamericana completamente opposta a quella del predecessore. Dell’incidente di Bascapè si occupò il pm Vincenzo Calia: a Pavia, nel 1994, aprì una nuova inchiesta sulla morte di Mattei, mettendola in relazione con la scomparsa di De Mauro e la morte di Pier Paolo Pasolini. Perché De Mauro fu vittima di “lupara bianca” proprio mentre indagava sul caso Mattei. E Pasolini, nel periodo in cui morì, stava scrivendo Petrolio, monumentale romanzo in cui narrava ciò che aveva compreso dei rapporti fra Mattei, Cefis, la politica italiana e gli interessi petroliferi internazionali. Esso conteneva ampie citazioni di Questo è Cefis, pubblicato nel 1972 dall’Agenzia Milano Informazioni.
Di questa parte, si è occupato, in particolare, David Grieco (Roma, 1951). Fu tra gli amici personali di Pasolini. Redattore de L’Unità, è stato anche regista del film La Macchinazione (2016). In esso, ricostruisce gli ultimi giorni di vita dello scrittore.
I contenuti sono quelli che Grieco aveva già esposto nell’inchiesta intitolata, appunto, La Macchinazione (Milano 2015, Rizzoli). Essa ripercorre i nodi del caso Pasolini: la confessione inverosimile di Pelosi, che affermò di essere stato aggredito dal poeta, salvo riportare scarsi segni di colluttazione; lo stesso luogo del delitto, inverosimilmente lontano dal luogo dove Pasolini avrebbe “rimorchiato” il ragazzo per un’avventura occasionale; l’Alfa Gt dello scrittore, sulla quale Pelosi sarebbe fuggito passando sul cadavere, ma che non presenta i segni di quanto avvenuto quella notte (rottura della coppa dell’olio, urto contro un paletto di cemento).
Il ragazzo che fu visto con Pier Paolo Pasolini nella trattoria “Biondo Tevere” dal titolare Vincenzo Panzironi, la sera del delitto, è comunemente identificato con Pelosi.
Ma l’identikit tracciato da Panzironi era quello di un giovane “alto m. 1,70 e forse più, di corporatura normale, capelli biondi, mossi, lunghi fino al collo e pettinati all’indietro.” (La Macchinazione, p. 182). Ovvero, non c’entrava niente coi connotati di Pelosi. È calzante, piuttosto, per descrivere Giuseppe Mastini, detto Johnny Lo Zingaro, sostiene Grieco. “Ha una fedina penale lunga un braccio: rapina, omicidio, sequestro di persona.” (p. 184).
Profondo Nero cita, in merito, due siti curati da militanti della sinistra extraparlamentare, ex detenuti nel circuito delle carceri speciali del Nord Italia. “Il primo si chiama Franco Bellotto ed è il presidente dell’Associazione esposti all’amianto di Venezia. Nel suo sito definisce Giuseppe Mastini «[…] amico dei fascisti romani e già noto alla Banda della Magliana […]» Il secondo è un altro veneziano, Paolo Dorigo” (Profondo Nero, pp. 230-231). E Dorigo definisce Johnny “amico di Cavallini [Gilberto, esponente dei Nar di Fioravanti, N.d.A.]” (Profondo Nero, p. 231).
Dopo un conflitto a fuoco con la polizia, Mastini era stato costretto a portare un plantare. Uno identico fu ritrovato nell’Alfa Gt di Pier Paolo Pasolini, dopo il delitto (vedi La Macchinazione, p. 184).
Morte Pier Paolo Pasolini: le prime indagini
La prima a indagare sulla morte di Pasolini fu Oriana Fallaci, per iniziativa personale. Interrogò coloro che abitavano o frequentavano le baracche dell’Idroscalo, i quali riferirono del pestaggio a opera di più persone. “In seguito a quell’articolo, Oriana Fallaci viene convocata dalla procura di Roma e interrogata con modi alquanto bruschi. Perché? Perché Oriana Fallaci non intende rivelare le sue fonti.
Eppure un giornalista ha facoltà di rifiutarsi di rivelare l’identità di un confidente se la rivelazione può mettere a repentaglio la vita del confidente stesso. Si chiama segreto professionale. Per questa «reticenza», Oriana Fallaci sarà incriminata, processata e condannata a quattro mesi di detenzione, poi amnistiati. E l’ordine dei giornalisti non muoverà un dito per difenderla.” (La Macchinazione, p. 52).
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Al giorno d’oggi, il film-inchiesta di Grieco è stato accolto con toni sprezzanti da Mariarosa Mancuso sul sito de Il Foglio . “Quanto volete per smettere? Per lasciare in pace Pier Paolo Pasolini?” La verità, signora Mancuso. Tutta la verità. Perché sono proprio silenzio e bugie a togliere la pace all’ombra di Pier Paolo Pasolini.