Il 4 novembre scorso Bangaly Soumaoro, 33enne di origini guineiane, muore in circostanze ancora da chiarire nel Cara di Bari. Il giovane aveva manifestato malesseri e difficoltà respiratorie già nei giorni precedenti, probabilmente in seguito all’ingerimento di alcune pile. Le negligenze dei controlli sanitari e l’assenza di medici all’interno del Cara di Bari hanno condannato il giovane alla morte, avvenuta nella giornata del 4 novembre all’ospedale San Paolo di Bari.
Le vicende attorno alla morte di Bangaly Soumaoro
Bangaly Soumaoro entra nel circuito dell’accoglienza a Bari, dove al momento della sua morte soggiornava da ormai più di un anno, dopo essere partito a 20 anni dalla Guinea. Nel Cara di Bari Palese aveva presentato domanda di protezione internazionale e qui era in attesa di un permesso di soggiorno in seguito a un primo diniego da parte della Commissione territoriale sulla sua domanda di asilo.
A quanto raccontato dagli altri ospiti del Cara di Bari, Bangaly Soumaoro avrebbe iniziato ad accusare malessere e difficoltà respiratorie già nei giorni precedenti a quello del decesso, rivolgendosi al centro medico del Cara tra sabato 2 e domenica 3 novembre. Qui non sarebbero state prestate al giovane le cure mediche necessarie e gli infermieri presenti gli avrebbero semplicemente sommistrato della tachipirina. Le condizioni sono poi rapidamente precipitate: l’intervento del 118 lunedì 4 si è rivelato inutile e Bangaly Soumaoro è morto in mattinata presso l’ospedale San Paolo di Bari.
Ritardi, negligenze, scarsa considerazione e un sistema di accoglienza vergognoso hanno contribuito alla tragica morte di Bangaly Soumaoro. Sebbene sia innegabile la responsabilità derivante dall’assenza di prontezza e di cura, il principale colpevole resta il sistema di accoglienza stesso, aggravato dai continui tagli ai fondi destinati a strutture come i Cara, i Cpa e i Cas, perpetrati dalle politiche governative.
«Non abbiamo più assistenza h24: i medici sono disponibili solo per otto ore al giorno, mentre gli infermieri coprono le restanti 16 ore» ha infatti dichiarato la direttrice del Cara di Bari, dove nel weekend in cui si è presentato per chiedere aiuto Bangaly Soumaoro erano presenti solo infermieri.
Nel registro degli indagati sono stati iscritti 9 sanitari, i tre infermieri del Cara di Bari, la dottoressa che lunedì 4 novembre era stata avvisata della morte del giovane e cinque sanitari dell’ospedale San Paolo. L’accusa è quella di omicidio colposo.
Le proteste degli ospiti del Cara di Bari in seguito alla morte di Bangaly Soumaoro
Nelle ore immediatamente successive alla morte di Bangaly Soumaoro, i compagni del giovane ospiti nel Cara di Bari hanno organizzato una protesta per denunciare la morte del giovane e le condizioni disumane in cui versano all’interno del Cara. La protesta, iniziata durante la notte del 4 novembre e prolungatasi fino al pomeriggio di martedì 5, è sfociata in un corteo che ha condotto gli ospiti del Cara davanti alla Prefettura di Bari.
I ripetuti allarmi lanciati dalla fidanzata Aisha durante tutto il weekend di inizio novembre sono rimasti inascoltati, così come le voci dei compagni e degli amici di Bangaly Soumaoro. Sebbene gli imputati e la direttrice del Cara di Bari sostengano di aver agito correttamente, fornendo cure adeguate in base ai sintomi riferiti dal giovane, la sua morte resta avvolta da molte, troppe ombre, a cominciare dal probabile atto di autolesionismo dell’ingestione di pile.
La domanda, infatti, sorge spontanea: questa storia, avrebbe avuto un’altra conclusione se a manifestare tali dolori non fosse stato un giovane guineiano in attesa di un permesso di soggiorno? Questa vicenda, anche se con altri protagonisti, altri nomi e in altri luoghi, segue un copione già visto, dove a pagarne le conseguenze sono persone in attesa di regolarizzazione sul territorio italiano, costrette a condurre una vita priva di tutele e nella costante precarietà, economica, legale, psicologica e, troppo spesso, sanitaria. Sembrerebbe quasi una Cronaca di una morte annunciata, all’interno di un sistema di accoglienza che fa acqua da tutte le parti, in un Paese che invece di puntare sull’integrazione e sull’accoglienza, predilige politiche razziste e autoritarie, giocate sulla pelle di persone che ogni anno percorrono mortifere rotte migratorie e che in Italia trovano troppo spesso una prosecuzione del loro incubo.
Le disumane condizioni del Cara di Bari
In seguito alla protesta degli ospiti del Cara di Bari, una delegazione di sei persone è stata accolta dal prefetto di Bari Francesco Russo, incontro in cui sono stati esposte quattro tra le problematiche più urgenti da risolvere all’interno del Cara. Il portavoce della protesta, Afana Bella Dieudonne, ha parlato ai microfoni di Repubblica sollevando la questione dell’iscrizione anagrafica, del non adatto presidio sanitario del Centro, delle pessime condizioni igienico sanitarie e della mancata possibilità di recarsi al lavoro a causa della distanza dalla città e degli orari del Centro.
Il Cara di Bari, come tantissimi altri centri di accoglienza sparsi sul territorio italiano, non è una struttura idonea all’accoglienza. Inaugurato il 28 aprile del 2008 poco distante dall’aeroporto di Bari Palese, il Centro occupa un’ex base dell’Aeronautica militare circondata da filo spinato e sorvegliata 24 ore su 24. All’interno di un rapporto stilato in seguito a una ricerca condotta all’interno del corso Jean Monnet Lab – Monitoraggio dei diritti umani nelle zone di frontiera dell’Università di Bari si legge:
«Un grande campo profughi organizzato in moduli abitativi prefabbricati disposti sui lati di una grande area centrale dove insiste una tensostruttura della sala mensa e i moduli dedicati alle attività amministrative e all’erogazione dei servizi alla persona».
Bagni fatiscenti, cibo scadente, scarse condizioni igienico sanitarie sono alcune delle problematiche che attanagliano non solo il Cara di Bari ma tutti i Cara, Cpa e Cas italiani, rendendo disumane le condizioni di vita degli ospiti. Oltre a ciò, nella maggior parte dei casi, l’ubicazione di tali Centri impedisce un inserimento nel tessuto sociale dei migranti ospitati, spesso impossibilitati anche dal recarsi al lavoro perché troppo distanti o con orari da rispettare proibitivi, tenendo tali Centri lontano dagli occhi e dalle vite della popolazione locale. Invisibilizzare per separare: confinare i migranti all’interno dei centri, impedendo loro di uscirne sia fisicamente sia metaforicamente, mantenendoli nella categorizzazione di “migranti” e “stranieri”. Questo rallenta il processo di integrazione e disumanizza chi risiede in questi centri, privandoli della libertà di scelta e rendendoli soggetti passivi alle tempistiche delle domande di asilo e alle decisioni altrui, in balia di un sistema di accoglienza che accetta che migliaia di persone ogni anno versino in condizioni di vita disumane in attesa di regolarizzarsi sul territorio.