Siamo in una stagione febbrile di riscoperta dei classici del cinema e lo sforzo internazionale per la loro promozione s’arricchisce ogni giorno di nuovi e importanti titoli. Morte a Venezia (1971) di Luchino Visconti è uno dei film fortunati: il 19 febbraio ne è stato infatti messo in commercio il DVD e Blu-Ray dalla Criterion Collection, distributrice di grandi titoli in formato digitale.
Il lavoro di Visconti ritorna brillante, immerso nella fotografia densa di Pasqualino De Santis che illumina una Belle Époque più figlia del ricordo del regista che del romanzo di Mann. Il cinema è visione: Visconti lo sa benissimo e in quanto uomo e regista lontano da idealismi, procede con un approccio materialistico, sensuale, terreno nel confronto col testo d’origine.
L’efebo Tadzio (Björn Johan Andrésen) ha carne ed ossa, è silenzioso quanto padrone del suo potere estetico. Come molti oggetti d’amore, conosce il suo potere ma ha il distacco giusto per non essere influenzato dall’interesse che riceve. Sa di essere bello, si concede poco, non si riesce a comprendere del tutto se sia cosciente del suo effetto sugli altri.
L’astrazione teutonica non è nelle vene di Visconti: non per niente il regista ricorre a Mann pensando a Proust. Dietro alle figure degli attori stanno fantasmi del suo passato: la Mangano, sua fedelissima amica ed attrice tra le più versatili, non solo risulta essere la madre di Tadzio ma anche una versione estatica, trasfigurata di Carla Erba, madre del regista.
Lo si sente dall’affetto con cui Visconti volle insistere sul volto, i gesti, la presenza dell’attrice che faceva a distanza di anni commuovere il costumista Piero Tosi, che ripensava alla Mangano durante le riprese: “Era il tramonto e Visconti girava giù al Des Bains. Silvana era vestita ed era il crepuscolo. Era contro la finestra e aveva un armoire con un grande specchio e lei s’accingeva a mettere i gioielli suoi personali, bellissimi. E io ho avuto la sensazione che vivevamo in quel momento lì, il momento del film e che Silvana era veramente quel personaggio. È stata un’impressione ed un ricordo indimenticabile.” (dal documentario Sorriso amaro di RaiEdu)
La scelta perfetta degli attori è una delle qualità di Visconti che volle Dirk Bogarde per il ruolo del protagonista. Da scrittore il suo Gustav von Aschenbach divenne musicista ed il regista rese sullo schermo la fine del personaggio con una costanza impietosa, attentissima nel coglierne il disfacimento fisico e mentale.
Scoperta l’attrazione per Tadzio l’Aschenbach di Bogarde rilegge i suoi ricordi sotto una luce nuova: lui che voleva rimuovere la carnalità dall’arte si ritrova assoggettato al suo potere. Questo uomo di cultura si scopre quasi una versione rimpicciolita dell’Ippolito del mito: s’è dedicato per una vita alle Muse rifiutando Afrodite, che non accetta l’affronto.
Non sapendo amare, il protagonista vive dentro di sé la sua passione, il suo lamento è compresso e riverberato all’interno. L’eccellenza di Bogarde sta proprio nell’economia gestuale, nella gestione mimica che manifesta a tratti e sussulti la bramosia, l’ansia del guardare, del sospirare.
Già portato al crollo fisico, il suo volto terreo ed ansioso è ancor più danneggiato dalla visione dell’idolo d’amore. Sembra di vedere in immagini certi passi di Saffo:
(…) si sgomenta il cuore a me nel petto, non appena ti guardo un solo istante, e di parole rimango muta. La voce sulla lingua si frantuma, sùbito fuoco corre sottopelle, agli occhi è cieca tenebra, e agli orecchi rombo risuona. Sudore per le membra mi discende e un brivido mi tiene; ancor più verde sono dell’erba; prossima alla morte sembro a me sola.– estratto dal fr. 31 West, trad. di Daniele Ventre.
L’intensità con cui Visconti ha reso su pellicola la novella di Mann lo porta a premere il pedale non solo del riferimento sessuale esplicito ma anche ad inserire squarci grotteschi, sberleffi al controllo maniacale del protagonista. Ridotto ad una maschera ridicola dopo il trucco in una delle ultime scene, Aschenbach si ritrova sconfitto: la giovinezza è passata e lui non è che un vecchio che cade a pezzi. Non gli resta che una risata disperata in una delle calli di Venezia.
Il tono così personale del film, così fortemente interiorizzato, produce delle sensibili modifiche sul piano ritmico. Contrazioni ed accelerazioni fortissime si trovano soprattutto nella seconda parte, dove l’intensità emotiva prende il sopravvento sul tono descrittivo, dilatato dell’inizio. Il film non è neoclassico od omogeneo se non nel versante figurativo, grazie non solo ai costumi di Tosi ma anche alle scenografie di Ferdinando Scarfiotti.
Scritto con Nicola Badalucco, il film di Visconti rievoca fortemente il progetto mai portato a termine del film sulla Recherche proustiana. La sceneggiatura era stata scritta in quegli anni con Suso Cecchi d’Amico ma non si riuscì mai a venirne a capo sul piano pratico. Consola però il fatto che Visconti abbia comunque impiantato i semi di quel progetto amato nei suoi film fino alla fine.
In questa luminosa riscrittura di Mann noi ritroviamo non solo la Mangano che avrebbe dovuto essere la contessa di Guermantes nel film mancato ma anche i ricordi di Visconti. Questo innesto di affetto e malinconia del creatore rende il film amabile e tenero al massimo grado.
Antonio Canzoniere