Moro e Pertini non erano come Rivera e Mazzola : ma più come Roma e Juventus.
La passione e l’organizzazione, la pulsione e il potere (rispettivamente Pertini e Moro).
Due opposti : accostarli porta a formare un ossimoro.
Non si possono infatti immaginare in una staffetta, come quella che vedeva avvicendarsi i due campioni della nazionale azzurra ai mitici mondiali del ’70.
Ma la storia e la politica sono il regno della creatività e dell’imprevisto, e di fatto la loro fu una staffetta.
Una staffetta ben più sanguinosa della precedente, e che li vide avvicendarsi sul massimo proscenio della vita nazionale nell’anno fatale 1978.
L’anno in cui – ormai son d’accordo tutti quelli che riflettono su questi problemi – la Repubblica “fondata sulla Resistenza” è morta (con l’intervento decisivo di un gruppo di piccolo borghesi e maniaci narcisisti che si proclamarono “eredi dei Partigiani”) .
E venne sostituita a poco a poco da un’altra Repubblica, fondata sui “consigli per gli acquisti” (il 1978 è l’anno in cui Berlusconi, altro di cui si parla parecchio questi giorni, fondò la sua prima tv).
In questo 2016 che assiste alle tormentose vicende di quei personaggi che chiamiamo “Democrazia” e “Repubblica italiana” – in predicato di tirare le cuoia – la staffetta dell’ossimoro, Moro-Pertini, è tornata alla memoria.
Quel capriccioso, o raccapricciante, avvicendamento politico è stato rievocato nelle ultime settimane, in concomitanza con un doppio anniversario.
Una celebrazione malinconica: Moro e Pertini
Parliamo dei centovent’anni dalla nascita di Pertini (1896) e dei cent’anni da quella di Moro (1916).
In realtà, l’occasione ha consentito non solo di ricordare, ma proprio di ripresentare il significato politico di quella stagione dolorosissima. Quasi con la speranza di trarne energie e consigli per superare questo odierno momento di difficoltà per le sorti nazionali – così diverso, così simile.
Alla maniera del titolo di un film di quel regista tedesco, infatti, il 1978 è “così lontano, così vicino”.
E ricordare il 1978, vuol dire nel 2016 propriamente ” risvegliare nel proprio cuore” : ri-cordare, ri-sentire, ri-identificarsi.
Quasi un esorcismo, o una preghiera: perché quarant’anni fa, apparentemente, la Repubblica superò la prova.
Un’Italia sempre in crisi
Erano gli anni di piombo : anni di una contrapposizione sociale molto aspra, che sfuggiva al controllo dei grandi partiti, da tempo in crisi di legittimità (ma non di consensi elettorali!) e soprattutto in crisi di progettualità.
Le grandi narrazioni collettive (la cattolica, la laicorisorgimentale, la comunista) cominciavano a scricchiolare, di fronte alla nuova, montante società dei consumi di massa.
L’Italia individualista e affluente che poi è diventata la base elettorale del berlusconismo (ma non solo, anche dei suoi finti nemici) ruggiva sempre più forte.
Dicevamo: crisi di progetti. E quindi: tentazioni di “grandi coalizioni” per così dire ante litteram.
Parliamo del compromesso storico di Berlinguer (forse il terzo di una trinità, che ha accompagnato la fine di tutta un’epoca).
Ma parliamo anche dei “pensieri lunghi” di Moro : lo sforzo, l’obbligo per un politico di pensare anche per le generazioni future, e non solo per le elezioni più vicine.
Moro: il politico intellettuale dai “pensieri lunghi”
Sul valore, la profondità, la concretezza dei pensieri e delle strategie elaborate da Moro – e persino sulla loro sincerità – si è scritto molto, e certo non è questa la sede per discuterne.
Senz’alcun dubbio Moro era fra i pochi ad aver compreso fino in fondo, e ad aversi fatto carico, della necessità di una evoluzione della democrazia italiana – che era a rischio di soffocare e finire in un vicolo cieco.
Moro, come ha scritto lo storico Emilio Gentile, era peraltro proprio quello : un leader politico che faceva del pensiero, dell’intelligenza, del ragionamento – e della persuasione argomentata, anche troppo argomentata – i propri punti di forza.
Ma lo statista pugliese aveva un grosso punto debole. Non aveva “carisma”.
Non era molto popolare (lo divenne solo durante il rapimento, e spiegano perché due bei libri come Le polaroid di Moro di vari autori e Da quella prigione di Belpoliti, che analizzano fra l’altro l’effetto mediatico delle sue foto dal carcere scattate dai brigatisti. Foto che ottennero l’effetto imprevisto di avvicinare il potente, abbattuto e umiliato, al popolo che i rapitori speravano invece di aizzare).
E non capì una cosa : che dagli Americani bisognava farsi capire.
Il linguaggio oscuro, laborioso, velato – a tratti oracolare a tratti dettagliatamente dialettico – di Moro veniva reso oggetto di critiche, incomprensioni e satire anche sofisticate (come quella di Fruttero e Lucentini in un loro lontano romanzo di successo).
Ma gli Americani, all’epoca, non si limitavano alla satira, e quello che non capivano lo temevano piuttosto che deriderlo.
Bisogna avere paura, di chi ha paura di te, se questi è più forte di te.
La paura è una forma d’intelligenza, e in quel caso forse quella di Moro non fu sufficiente. O forse, fu più coraggioso di quel che in seguito si è preferito pensare.
Il coraggio sarebbe allora l’unico, concreto e autentico trait d’union fra Moro e Pertini.
La morte di Moro fu la morte di un’intelligenza elevata, e del tentativo di pensare una strategia per i tempi avvenire e il futuro della democrazia.
La Repubblica, cercava di spiegare, doveva uscire dalla contrapposizione fra comunisti e anticomunisti.
Doveva uscire dalla fase partitocratica e paternalistica, per coinvolgere pienamente i cittadini – mentre in seguito essi sarebbero divenuti sempre più cittadini-consumatori e sempre meno cittadini-sovrani.
I suoi funerali furono “i funerali della Repubblica”.
Doveva diventare capo dello Stato, come è noto, ma al suo posto toccò alfine a Pertini – che glielo riconobbe.
Pertini: un italiano fra gli italiani, ma migliore di tutti
Anche qui: l’immagine di Pertini coraggioso anzi temerario è forse un luogo comune, tanto quanto Moro celebrale e pavido – ma di sicuro Pertini non passa alla storia come ragionatore, ma come lottatore.
Il coraggio dimostrato negli anni delle lotte operaie, e poi antifasciste, in prigionia e in esilio, e durante la lotta partigiana, caratterizza la biografia di un eroe classico.
Insomma: persa la partita della strategia, la classe dirigente del ’78 scelse la strada del carisma e della popolarità.
Pertini seguì quella strada forse anche oltre quello che speravano, o temevano, i suoi elettori.
Un presidente “antipolitico”, dalla parte della “gente” – in un’epoca in cui gli scandali della P2 e non solo umiliarono le istituzioni e inflissero macchie indelebili alla reputazione di tutti i partiti, perlomeno quelli di governo.
Quello fu non a caso il periodo in cui si affermò un giovane comico di nome Beppe Grillo (altro ligure come Pertini) e il capo dello Stato, in situazioni come quella di Vermicino e ancor più dei tardivi soccorsi in occasione del disastro in Irpinia, apparve come un grillino prima dei tempi.
Non voglio dire nulla di banale sull’immagine che, ci piaccia o no, riassume il suo settennato : quella del Pertini esultante al Santiago Bernabeu mentre grida che i tedeschi dell’ 82 (come quelli del ’70!) “non ci prendono più”.
Invece ci hanno ripreso, eccome, e non solo loro.
Icone di un potere che svanisce
Ci ha ripreso soprattutto l’immagine che, ci piaccia o no, e non ci piace, riassume la vicenda umana e politica di Aldo Moro : il suo corpo inerme e offeso, abbandonato nel bagagliaio di una macchina.
La sua fine fu la fine, che aveva previsto, di una Repubblica ormai senza orizzonti.
L’Italia comunque quella crisi la superò, fra l’altro, avvicendando ai vertici un politico di capacità intellettuale superiore ma modesta presa popolare, con un politico di non eccelsa visione strategica ma incomparabile genuinità e conseguente grande popolarità .
Moro e Pertini come Mazzola e Rivera. Un colpo semplice e ad effetto per spiazzare l’avversario.
Pertini fu un politico moderatamente “populista – semplicemente perché aveva davvero fiducia nella democrazia, nel popolo e nei valori repubblicani – che di fatto colla propria figura “coprì” la crisi di tutto un sistema consentendo, suo malgrado!, alla partitocrazia di continuare la propria estenuante involuzione.
Tutto sommato quel passaggio, all’insegna di un presidente presenzialista e di grande impatto mediatico, ha sancito la crisi dei partiti e l’ingresso di un popolo impreparato nella società dominata dai media di massa. Quindi dominata dalla propaganda piuttosto che dal ragionamento – della retorica “erotica” piuttosto che dalla discussione, dalla seduzione piuttosto che dalla riflessione.
Il narcisismo dei miserabili che uccisero Moro e tantissimi altri innocenti, è diventato quello di una intera società.
Le commemorazioni di questi giorni, celebrazioni parallele dei due grandi personaggi, nascondono la disperata speranza che quella paradossale staffetta possa replicarsi, quasi reincarnarsi, e che una politica che mescoli “populismo” e “istituzionalità” possa trovare una nuova incarnazione.
Ma quella carta è già stata giocata, e penso che un bluff possa riuscire una volta, ma non di più : lo verificheremo il 4 dicembre, in occasione del referendum per scegliere se cambiare o meno la Costituzione “nata dalla Resistenza”.
ALESSIO ESPOSITO