Con la primavera fiorisce, anche quest’anno, la morale lavorista. Proliferano inarrestabili, articoli e interviste in cui si enfatizza quanto siano viziati i giovani d’oggi e la relativa mancanza di volontà nel rendersi disponibili allo sfruttamento. Un vociferare allarmante
Le accuse odierne di presunzione rivolte alle generazioni x e z sono la fotocopia di un racconto già scritto, masticato molteplici volte, recuperato e riutilizzato per alimentare una inutile disputa generazionale. Vana, perché lacunosa di contenuti volti al confronto proficuo. È la morale lavorista, nella sua luccicante retorica, ad accecare e quindi invalidare la ricerca sociale autentica, che miri a ottenere risposte concrete per un problema effettivamente esistente: l’inefficienza del mercato del lavoro.
Le cause banalmente e comunemente sostenute non coincidono con la realtà del paese. L’idea estremizzata che pervade persino un’ampia parte della nostra classe politica è distacco totale dalla realtà. Ad ogni problematica sociale infatti non corrisponde mai una spiegazione così superficiale.
Non si può semplificare.
Il servizio di Cook all’interno del Corriere della Sera con protagonista il cuoco Alessandro Borghese è emblema della primaverile urgenza di sottolineare quanto siano scomparsi i “valori di una volta” e immancabilmente, rimarcare una presunta superbia giovanile.
Qualunquismo e contraffatta disputa generazionale
Le parole di Borghese : I ragazzi preferiscono tenersi stretto il fine settimana per divertirsi con gli amici. E quando decidono di provarci, lo fanno con l’arroganza di chi si sente arrivato. E la pretesa di ricevere compensi importanti…
Un ritratto stigmatizzato e agghiacciante. L’inesattezza è nell’impostazione stessa dell’affermazione. Minimizzare il divertimento dei ragazzi è ingiusto, inadatto perché la vita deve nutrirsi di piacere e lo svago ne è una variabile. La narrazione per cui sia indispensabile rilevare e prospettare il peggio è avvilente e limitante. Pretendere poi, di vedersi decorosamente riconosciuta una prestazione lavorativa con un adeguato stipendio e un’appropriata considerazione umana non può rientrare nell’arroganza.
In palio vi sono giustizia ed equilibrio economico, reclamarne la ragionevole applicazione non è insolenza ma individuazione della inderogabile valorizzazione della singolarità. I giovani, persino la categoria dei Neet, nel pretendere che non venga schiacciata la propria dignità, dimostrano intelligenza.
L’esistenza di un circolo vizioso di rimproveri tra generazioni non è un dovere ma sono proprio queste evitabili enunciazioni a conservare l’inutilità della caccia al peggiore.
Lavorare gratis come apice della morale lavorista
Sarò impopolare, ma non ho alcun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati. Io prestavo servizio sulle navi da crociera con “soli” vitto e alloggio riconosciuti… Oggi ci sono ragazzetti senza arte ne parte che di investire su sé stessi non hanno la benché minima intenzione. Manca la devozione al lavoro…devi lavorare sodo. A me nessuno ha mai regalato nulla….
Non si tratta di popolarità dell’idea, ma di come possa essere razionalmente concepibile. Proprio quando l’attenzione del dibattito pubblico dovrebbe essere rivolta al salario minimo si discute sulla eventuale legittimità del pagare il lavoratore. È il breve passo dalla colpevolizzazione di una categoria al considerarla come meritevole di essere oppressa dal lavoro stesso. Un salto nella vacuità del senso. Nella trascuratezza generale del racconto poi, mancante è persino la considerazione delle condizioni di partenza. Lasciamo allora che siano i dati a parlare: appartenere a un contesto famigliare ricco permette al 33% la possibilità di mantenere l’iniziale status sociale. All’opposto, coloro che nascono in contesti di reddito disagevoli solo per l’11% possono raggiungere in età adulta, una fascia reddituale più alta.
Lavoro come costante sacrificio
Mi sono spaccato la schiena, io, per questo lavoro che è fatto di sacrifici e abnegazione. Ho saltato le feste di compleanno delle mie figlie, gli anniversari con mia moglie…
È proprio attraverso queste tesi che si sostiene il coincidere dell’individuo con il proprio status lavorativo, come se i parametri dell’unicità umana derivino dalla carriera e non dall’etica personale. E nell’immaginare la professione in tal modo, la visione diviene inevitabilmente associabile alla sofferenza, al sacrificio, persino al dolore.
Ma il mestiere non può uccidere il lavoratore e la sua coscienza.
Deve essere appagamento e contemporaneamente preservare tutti gli altri infiniti aspetti dell’individuo. Non è un caso che a premiare e incentivare il sacrificio siano specifiche classi economiche, privilegiate e probabilmente inconsce degli appelli di cui si fanno portatrici.
“Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” è scritto nella Costituzione ed è chiaramente antitetico all’ideologia gerarchica delle supposizioni precedenti. Per quanto rispettabile debba essere l’opinione di chiunque, tra un cuoco e la nostra legge fondamentale si deve scindere.
Occorre ri-definire correttamente il reale: il nome delle dinamiche fomentate dalla morale lavorista è sfruttamento.