Il taglio prospettico, nello stare al mondo dell’uomo, gioca un ruolo fondamentale. Se tutti, nell’attraversare l’esistenza, ci muoviamo a partire da un particolare punto di vista, è su questo che, nell’allargamento delle proprie vedute, si lavora costantemente. Anche a livello inconscio. Si tratta di un’attività strutturalmente complessa, che si articola tra l’identità e la differenza, l’integrità e la mobilità. Poli, questi ultimi, che, in quanto convergenti e al contempo divergenti, non sempre è facile governare. Da un lato, l’eccesso di mobilità conduce ad un estremo liquido fin troppo carente in termini di sostegno. Dall’altro, l’integralismo identitario compromette alla radice il movimento che sta alla base della dimensione metamorfica del sé e del mondo. Risulta, allora, di fondamentale importanza, sostare su nuovi e diversi modi di vedere per tracciare ininterrotte sintesi alternative in ordine alla perfettibilità. Per volgersi su modi di essere che tutelino la complessità dell’esistenza, la cui trama si snoda tra identità e differenza, integrità e mobilità.
Modi di vedere. E già una prima soglia speculativa si staglia all’orizzonte. Perché il vedere ha radici etimologiche antiche, profonde, originarie. Che è opportuno riprendere, ritracciare, ripercorrere per chiarire in che modo si intenda – in questa sede – parlare di modi di vedere. La chiarificazione dei termini fondamentali di un discorso è una pratica obliata, ma per lungo tempo considerata il perno di ogni possibilità di dialogo. Nel Medioevo – epoca tanto ampia e complessa quanto, fin troppo spesso, ridotta ad un’unica linea di mero oscurantismo – ogni disputatio accademica era preceduta dalla explicatio terminorum. Per dovere di completezza – proprio perché è necessario non esemplificare allo stremo la complessità – non si tratta di una pratica impiegata nell’intero arco del Medioevo. Ma di un’operazione così essenziale e fondamentale in una più che discreta porzione di quell’epoca, da poterlo considerare emblematico. Il Medioevo è stato anche questo: rinnovati modi di vedere le cose.
Tornando alla questione, l’explicatio terminorum consisteva, brevemente, nel tentativo di chiarire il significato dei concetti fondamentali di qualunque dialogo, confronto, discussione. E lo si riteneva fondamentale in quanto primo stadio di tutela da ogni possibile fraintendimento. Se impiego un termine, un concetto, un’espressione in una certa accezione che non è chiara al mio interlocutore, l’impianto dialogico vacilla. Semplicemente perché diventa difficile comprendersi e, dunque, ancora più arduo continuare ad abitare l’orizzonte del dialogo. Per questo si è ritenuto opportuno chiarire, ancora prima di iniziare, il senso dell’espressione modi di vedere.
VEDERE E OSSERVARE
Vedere è un termine complesso, dall’ampio spettro semantico, dai più disparati accenti e impieghi. Ad oggi lo si associa, principalmente, al senso visivo, in un pendolo di accezioni che oscilla tra la superficie e la profondità. Il termine vedere può riferirsi, in primo luogo, all’immediato atto percettivo di ricezione delle immagini. Ma se anche la più immediata percezione è, in fondo, mediata dalle lenti che la filtrano e, dunque, anche in ridotta misura, oggetto d’elaborazione, dall’immediato vedere si procede oltre. Oltre la più istantanea immediatezza e oltre il senso che più appartiene al vedere.
Nell’espressione, ampiamente utilizzata, «ci hai visto bene», ad esempio, lo spettro semantico eccede il senso della vista. Di certo da quest’ultimo può articolarsi ma suppone, al contempo, il riferimento ad un’elaborazione di ciò che si è visto. O, ancora, spesso si utilizza il termine osservare – che, a ragione, etimologicamente rimanda al custodire – in un senso più profondo del vocabolo vedere. Come se quest’ultimo si fermasse alla soglia dell’epidermico cogliere visivamente ed il primo conservasse il materiale osservato.
Ma, se procedendo, ci si riferisse all’espressione che dà il titolo a questo breve e modesto scritto, emerge ancora altro. Con modi di vedere, infatti, non di rado si fa riferimento alla prospettiva dalla quale ci si approccia al mondo. Qualcosa, dunque, che va ben oltre il primo impatto percettivo, superficiale, approdando nell’alveo della concettualizzazione. Anche in questo caso, ci si trova di fronte a modi di vedere. Modi di vedere il vedere, e tutto continua, ininterrottamente, a muoversi. Ma, se non bastasse, ulteriori spunti ci arrivano dal mondo greco. Ulteriori indicazioni, mappe, sui modi di vedere il vedere. E se l’uomo, come sosteneva il filosofo tedesco Martin Heidegger, è un essere indicante (Zeigender), e per questo tratto sempre al movimento, continuiamo pure a indicare.
VEDERE, TEORIA E PRASSI
Ci si riferisce, in questo caso, al termine italiano teoria. Che etimologicamente deriva «dal greco θεωρέω theoréo “guardo, osservo”, composto da θέα thèa, “spettacolo” e ὁράω horào, “vedo”».
In questa rinnovata cornice, il termine vedere è strettamente connesso ad un concetto che, da tempo e nel tempo, sta a fondamento del processo conoscitivo. D’altronde anche la parola teorema rimanda, etimologicamente, al vedere nel senso appena citato. Oltre che, anche fonicamente e a partire dalla radice, al termine teoria in cui è contenuto, in una qualche misura, il vedere.
Ed è in quest’orizzonte che si intende procedere. Vedere e teoria. Nuovi modi di vedere la teoria. E, ancora: rinnovati modi di vedere, rinnovati modi di essere. Lo si anticipava, alle prime battute. Lo si ribadisce, adesso. Dopo aver tentato di abitare il difficile – e, per questo, meraviglioso e terribile – itinerario della complessità.
MODI DI VEDERE: RIPETIZIONE E RINNOVAMENTO
Il taglio prospettico, nello stare al mondo dell’uomo, gioca un ruolo fondamentale. Si tratta di un’attività strutturalmente complessa, che si articola tra l’identità e la differenza, l’integrità e la mobilità. Se tutti, nell’attraversare l’esistenza, ci muoviamo a partire da un particolare punto di vista, è su questo che, nell’allargamento delle proprie vedute, si lavora costantemente. Poli, questi ultimi, che, in quanto convergenti e al contempo divergenti, non sempre è facile governare. Risulta, allora, di fondamentale importanza, sostare su nuovi e diversi modi di vedere per tracciare ininterrotte sintesi alternative in ordine alla perfettibilità. Per volgersi su modi di essere che tutelino la complessità dell’esistenza, la cui trama si snoda tra identità e differenza, integrità e mobilità.
Eccoci, dunque, ad un tornante. Alla stessa soglia iniziale che non è più nell’esatta configurazione, postura, forma in cui l’avevamo lasciata. Ritorno e rinnovamento su ciò che è lo stesso ma, al contempo, non esattamente identico al suo stato iniziale. L’impresa conoscitiva dell’uomo. Qui incontriamo, nel nostro itinerario, uno dei più raffinati pensatori della storia culturale e simbolica umana: Plotino. Filtrato dalle parole dello studioso italiano Davide Susanetti, contenute nell’opera Il simbolo nell’anima:
«E noi? Chi siamo noi?» chiede Plotino al lettore delle sue Enneadi. Perché è questa, ancora e sempre, la domanda fondamentale da cui tutto dipende e la cui risposta impegna la vita intera. In verità – egli aggiunge – «noi siamo pollà, molte cose», ed è per tale ragione che abbiamo bisogno di conoscerci. Ciò che è assolutamente semplice e uno non ha alcuna necessità di assolvere alla richiesta del motto delfico da cui il nostro percorso ha avuto inizio. Ciò che è semplice sa di sé in modo immediato, con un’evidenza e una trasparenza che sono assolute. Non ha bisogno di muoversi e di ricercare, non ha bisogno di percorrere i confini della propria natura per potersi vedere, né tanto meno di mettersi a distanza per osservare ciò che, da troppo vicino, non si lascia scorgere. È sempre presente a sé e in sé. Il motto «conosci te stesso» riguarda unicamente chi è o diviene pollà.
INTERROGATIVI FONDAMENTALI, ANCORA E SEMPRE
E noi chi siamo? L’interrogativo fondamentale, ancora e sempre, che ci riguarda in quanto individui e in quanto membri della società e della comunità umana. Perché complessa è l’esistenza umana e il quadro – più o meno ampio – in cui ogni vicenda individuale è gettata. E da qui si è chiamati all’imperativo della conoscenza, che si snoda su una trama di complessità. A questo imperituro, potenzialmente in-finito, movimento di ripetizione e rinnovamento che conduce ineludibilmente sulla via del procedere metamorfico. Senza per questo dover rinunciare, senza appello, all’identità del nostro esserci, tanto fondamentale quanto la differenza.
Occorre governare proficuamente questi due piani – almeno a primo impatto, remotamente distanti tra loro. E scorgere, attraversare, abitare quanto di fecondo ne tracima. Attività di ricerca non meno difficile di quanto è necessaria. Che si snoda, almeno in prima istanza, sulla trama della visione, del taglio prospettico, dell’attitudine, dei modi di vedere. Continua, nella stessa opera e sulla scia della proposta plotiniana, Davide Susanetti:
[…] quest’opera di distinzione, conduce, peraltro, a lenti passi, verso un deciso cambio di piano, verso un mutamento che estende e rovescia la qualità della visione. Perché se molte sono le cose che ci abitano e di cui dobbiamo diventare coscienti, molteplici sono anche i piani in cui si articola la realtà. Siamo abituati a scorgerne solo uno, quello che si offre, ogni giorno, i nostri sensi, quando ci destiamo dal sonno e ci rivolgiamo alle attività che ci attendono. […] Ed è, questa, l’illusione più tenace da dissipare.
MODI DI VEDERE, MODI DI ESSERE
Ricerca, visione e quindi teoria, che nella radice etimologica reca in sé anche il significato di contemplazione. Ed ecco che ci si muove verso un ulteriore cambio di piano che «estende e rovescia la qualità della visione». La teoria – che nel tempo della velocità, dell’efficacia e dell’efficienza – è fin troppo spesso ridotta ad un’attività poco utile, si adagia su un altro piano. E, investita di tutt’altra luce, si allontana dalle regioni della pratica improduttiva in cui è relegata. È dai modi di vedere che discendono i modi di essere, non meno di quanto dai modi di essere sgorgano i modi di vedere.
Se si è già sostenuto che il lavoro teorico culmina nella sua declinazione prassica, nel suo farsi azione, secondo Plotino il legame tra i due piani è ancora più denso. La teoria stessa – che è visione, contemplazione, elaborazione – è immediata produzione, póiesis. Perché – non volendo esaurire un concetto ben più ampio e, in linea di principio, mai del tutto solubile – tanto nel vedere quanto nel fare, l’uomo si colloca e ri-colloca nel mondo. Come individuo, membro di una comunità, frammento dell’intero. Modi di vedere, modi essere e gli interrogativi che, ancora e sempre, impegnano la nostra esistenza.
Mattia Spanò