La model minority esiste tutte le volte che sentiamo frasi come: “gli asiatici non delinquono e sono gran lavoratori”.
Il mito della model minority promuove l’idea che ci siano minoranze migliori di altre. Come tutti gli stereotipi, si tratta di un’immagine distorta ed estremamente semplificata della realtà, nella quale le esperienze individuali vengono portate come modello di un’intera comunità. Nasce come frutto di una società americana che vuole ribadire la propria supremazia, dividendo e mettendo in competizione tra loro le minoranze. Ecco quindi, ad esempio, che gli ebrei americani o gli asiatici americani sono cittadini, immigrati rispettosi della legge e produttivi. Al contrario, gli afroamericani sono inclini alla criminalità e poco autosufficienti.
Il termine model minority appare per la prima volta nel 1966, in Success Story, Japanese-American Style, un articolo del New York Times in cui il sociologo William Petersen evidenzia come gli americani di origine giapponese siano riusciti a farsi strada negli Stati Uniti. Con gli anni, il termine è cresciuto sempre più fino ad indicare anche altre comunità immigrate.
Model minority e le sue vittime
I soggetti “preferiti” di questo stereotipo però continuano ad essere gli asiatici. Vengono concepiti come una massa indistinta di individui intelligenti, con un’attitudine per scienza e tecnologia, inclini agli affari, ma anche gran lavoratori instancabili e obbedienti. L’immagine di immigrati divenuti ricchi grazie a sacrifici e duro lavoro ricalca perfettamente il sogno americano. La model minority segue perfettamente lo spirito individualista americano. Quindi, in soldoni, dice: bravo se riesci ad arricchirti, mentre se sei povero è perché te lo meriti.
Molti studiosi si sono interrogati sul perché gli asiatici siano stati scelti come principale minoranza modello. Una delle risposte è da rintracciare nei principi ideologici e culturali. Alla base della cultura cinese e del pensiero confuciano, infatti, c’è l’istruzione: considerata come il mezzo principale per raggiungere il più alto grado della società.
Inoltre, negli anni Sessanta, gli asiatici americani rappresentavano una minaccia minore rispetto alla comunità afroamericana impegnata nella lotta per la parità di diritti negli Stati Uniti. Gli asiatici, nonostante fossero ampiamente soggetti ad episodi di razzismo e discriminazione, spesso mancavano di un attivismo politico che potesse portarli a delle rivolte vere e proprie.
Tuttavia, una voce di denuncia era presente all’epoca nella letteratura e nel teatro sino americano. Nell’arte, quindi, largo spazio era lasciato a tematiche importanti come le violenze subite, le difficoltà di assimilazione in una nuova realtà americana, gli interrogativi sull’identità e la denuncia verso una rappresentazione stereotipata e caricaturale della comunità cinese in America. Anche la questione femminile e il bisogno di sbarazzarsi dell’immagine tipica della donna cinese, simbolo di sottomissione e fragilità, era un argomento ampiamente sviscerato.
Stranieri per sempre?
Se facessimo un passo indietro, già nel 1870, la stereotipizzazione dell’immigrato cinese costituiva terreno fertile per molti artisti americani. L’attore Charles T. Parsloe ha fondato tutta la sua carriera sull’interpretare un cinese “fuoriluogo”. L’incapacità di adeguarsi rappresentava una rassicurazione in un contesto storico ed economico dove la comunità cinese rappresentava una minaccia per la società americana.
Cambiano i tempi, ma restano gli stereotipi. In questo interessante Ted Talk, Alice Li, ricercatrice della Vanderbilt University, spiega i diversi rischi della model minority e la “sindrome dello straniero perenne”. Ancora oggi, essere un asiatico americano significa sentirsi uno straniero in casa propria. Elevare una minoranza a modello significa esacerbare il contrasto che da sempre è presente tra americani e sino americani. Alice Li sottolinea come essere sino americani non sia una contraddizione in sé, ma venga percepita così nella mente degli altri. Vite trascorse a sentirsi non abbastanza asiatici e non abbastanza americani.
Ci si può opporre ad uno stereotipo che suona come complimento? Essere considerati intelligenti e di successo non sembra poi così male, ma iniziamo con il dire che uno stereotipo non è mai qualcosa di buono. Oltre all’estrema e orrenda semplificazione, la model minority causa disagi di natura psicologica. È una continua sfida a cui sei costretto. Se non eccelli, se non rientri nell’etichetta del bravo asiatico, ti sentirai inadeguato e insicuro. Non è poi così bello, vero? È l’esatto opposto della libertà.
La model minority è poi così lontana?
Essere trattati con uguaglianza significa avere la libertà di non rispondere ad alcun modello o standard. Essere liberi significa poter non eccellere e, perché no, anche oziare. Inoltre, presupporre che tutti gli asiatici americani abbiano una vita agiata taglia fuori tutte le persone bisognose o, peggio ancora, le fa sentire mele marce all’interno di un gruppo già discriminato. C’è qualcosa di peggiore? Penso di avervi convinto ora.
L’idea che la model minority sia qualcosa di lontano da noi è profondamente errata. Ci riguarda tutti, sempre, anche quando appare un problema di altri. Ricordare o premiare una minoranza solo per i successi ottenuti e l’idea che occorra faticare per essere accettati nella società è aberrante. Concludiamo quindi, citando Giorgia Meloni che ci ricorda come la cittadinanza italiana sia il premio meritato per un immigrato modello. Un’eccezione, quindi, una minoranza modello.
Giulia Sofia Fabiani