È Maggio sì, eppure le cronache giornaliere sui continui episodi di mobbing, raccontano quanto utopica sembri la realizzazione di un mondo del lavoro realmente dignitoso e democratico. Di sicurezza, dignità e rispetto, conosciamo ancora il significato?
Corrono cattivi tempi per i lavoratori, pessimi per l’umanità
“Fuori i nomi di chi ha il ciclo altrimenti vi calo le mutande una per una”
Sono le parole della direttrice di un supermercato di Pescara rivolte alle sue dipendenti per un assorbente ritrovato in bagno, fuori dal cestino. Una pretesa assurda posta con serietà: ha richiesto che le fossero forniti i nomi delle dipendenti con ciclo accompagnando il tutto con minacce di sanzioni disciplinari e mancati rinnovi.
Così si è rivolto il titolare di un agriturismo di Bergamo, alla donna che si occupava di lavare i piatti. L’uomo di 47 anni è stato condannato, senza concessione delle attenuanti generiche, per averla violentata.
Sono comportamenti ostili, insulti, violenze carnali e non, ma anche pettegolezzi e infime battute. Denigrazioni che si incollano alla pelle per corrodere l’anima, consumare l’individuo privandolo della propria dignità. È mobbing, letteralmente un’aggressione abituale, sempre più frequente. Fattuale e ingiustificata.
Qual’è il valore del 1 Maggio, festa del lavoro, se quest’ultimo conosce ancora sin troppo bene il sapore della spregiudicata sopraffazione?
Qual’è il valore dell’uomo che in posizione privilegiata, non sa riconoscere la soggettività altrui?
La celebrazione si è conclusa ma i soprusi restano vivi a segnare retrocessioni ignare del progresso inneggiato. Non si può più tollerare il mascheramento dello schiavismo con la retorica del merito o di una professata e indispensabile gavetta. Specialmente chi detiene posizioni favorevoli, deve riconoscere e curare lo spessore di tali distinzioni.
Nell’attuale gioco di veementi gerarchie sembrano essere inconciliabili la necessità di un’occupazione e la decorosità di essa. Quando sorge l’emergenza personale si finisce per piegarsi al peggio e nel silenzio degli sfruttati, alcuni datori di lavoro sentono legittima, la possibilità di avanzare aberranti richieste e minacce, per poi sfociare nelle lamentele quando risulta difficile trovare nuovo personale.
La valanga della diffamazione sul posto di lavoro che la psicologia definisce nella sua angheria come “mobbing” colpisce, travolge ed emargina la vittima
Il rispetto, nel circolo vizioso di imposizioni e molestie, sembra essere un ideale, sacrificabile perché estremo. Il carattere è sistematico e l’assiduità, spesso, viene inghiottitta dal silenzio, figlio della paura.
La nostra legislazione seppur mancante di uno specifico reato di mobbing tutela in molteplici norme la salute, la sicurezza ed il benessere dei lavoratori attribuendo rilievo alle condotte vessatorie. Ciò che sembra essere fragile se non assente è però una normativa etica, un indirizzo morale solido comunemente assunto come doveroso. La consapevolezza di quanto irrinunciabile sia il riconoscimento e l’esaltazione del valore umano è talmente vaga da scomparire facilmente, oppressa dalla competizione di un mercato dove le unicità sono solo algoritmi vuoti di sensibilità.
L’inchiostro usato per queste storie di ordinaria e inconcepibile tirannia è sangue umano, è tutto il selvaggio incluso nella logica del profitto. A tingerlo d’oscuro prima dei meccanismi però, vi sono gli uomini stessi. Considerando quanto siano proprio essi causa della brutalità che annerisce il mondo del lavoro, forse, prima ancora di discutere circa il corretto funzionamento del capitalismo, dovremmo valutare quanto di umano ancora ci resta.
Corrono cattivi tempi per i lavoratori, pessimi per l’umanità.
Giorgia Zazzeroni