Miss Violence è un film greco del 2013 di Alexandros Avranas che ha vinto con questa pellicola il Leone D’Argento – Premio speciale per la regia alla 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. La Coppa Volpi come miglior interpretazione maschile è andata a Themis Panou, il protagonista maschile, appunto.
Ho letto in un altro sito che in questo film non c’è violenza, che in realtà il titolo tradisce la pellicola o la pellicola tradisce il titolo. Ma di violenza ne troviamo a fiumi, un mare, un oceano fangoso e putrido di violenza psicologica e fisica, e non è un film per tutti. Già le prime scene danno il via a una profonda angoscia per quella foto di famiglia, in cui sorride solo chi non sa e poi il volo fermato dall’asfalto di Angeliki: una bambina che decide di scavalcare la ringhiera del balcone il giorno del suo undicesimo compleanno. Alexandros Avranas sceglie una storia vera, avvenuta in Germania e peggiore di ciò che vediamo in Miss Violence. I protagonisti sono lì, silenziosi, dentro la loro casa la cui porta viene sempre chiusa a chiave da lui, il padre, non ha un nome e in fondo neanche gli serve, non è funzionale. Ciò che fa però, ogni suo passo in quella casa, ogni parola accennata, ogni silenzio prolungato, ogni immobilità delle sue figlie e dei suoi nipoti, della moglie, lo rappresentano.
Può l’inferno essere così silenzioso? Sì, e sembra esserci un doppio binario in questo inferno: la loro vita che continua a dispetto del suicidio della piccola Angeliki e parallelamente tutto quello che ne spiega la morte. Il fuori sta al dentro come la normalità sta alla mostruosità. La sua famiglia è composta dalla moglie e due figlie, queste sono le uniche parentele certe. Di chi siano figli i due bambini più piccoli e Angeliki, rimane un mistero. Sicuramente si sa chi è la madre ed è Eleni (Eleni Roussinou), la figlia maggiore, ma il resto è tutto un dubbio che rimarrà tale.
Il tempo passa, il suicidio quasi si dimentica e le domande aumentano, l’angoscia è sempre lì. Qualcosa non quadra, non può, non potrà, e l’idea che la verità sia terribile cominciamo a percepirlo. Ce l’aspettiamo la mostruosità, forse è questa una delle cose terribili del film: noi quella mostruosità, almeno una parte, la intuiamo come l’immagine di un puzzle, aspettiamo solo il momento che ci venga svelata del tutto e quando vorremmo alzarci e andarcene è ormai troppo tardi. Il carnefice che obbliga al silenzio le sue vittime, che le punisce con schiaffi tra innocenti, che le obbliga alla fame per punire la voglia di ribellione di Myrto (Sissy Toumasi), la figlia minore. Lei, seduta di fronte sua madre (Rena Pittaki), anche lei senza nome, la accusa e le dice che lei lo sa, lo sa da sempre. La ragazzina non può parlare : è una lotta fra vittime. Tutte vittime, un solo padrone osceno e violento che dorme accanto a quella donna da anni, in quella casa da anni come padre, marito, nonno. Ne condivide il sangue e decide chi e quando deve uscire, cosa comprare, dove andare, decide cosa farne di loro. Non dice mai che sono cose sue, di sua proprietà, ma lo sono. L’inferno dentro casa è sempre silenzioso, esplode dentro, logora l’anima, la frantuma pian piano, pezzo per pezzo e crea qualcosa di diverso. Questa cosa diversa, in questo caso, è un essere che si libera del carnefice con la violenza prendendone il posto quindi la fine non c’è, non può esistere. L’unica fine che vediamo è quella di una ribellione che deve fare i conti con gli strascichi di Miss Violence.
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