Il romanzo Un amore (1963) racconta un eros impaludato nella società borghese italiana degli anni ’60. Tra le sue pagine, però, c’è un personaggio che seduce molto di più della sua protagonista: la città di Milano secondo Buzzati.
Di solito, il romanzo Un amore di Dino Buzzati viene descritto come un romanzo erotico che racconta un inganno. O la perversione di un sentimento sbagliato all’inizio e sbagliato alla fine. Per certi versi, c’è chi accosta la passione dell’architetto di mezza età Antonio Dorigo per la giovane ballerina Laide alla Lolita di Nabokov. E chi ci vede dentro solo la triste parabola del cuore arido e sotto sotto un po’ misogino di un povero borghese colto e inetto. Su questo non mi pronuncio: per Dorigo non sono riuscita a provare simpatia, pur riuscendo a entrare dentro la sua mente grazie alla scrittura abilissima dell’autore. Tuttavia, ho amato questo romanzo per qualcosa che mi ha fatto scoprire: la nostalgia per una città che non ho fatto in tempo a conoscere. Perché Milano secondo Buzzati è una città dall’anima popolare, piena di vivacità e mistero.
Una città rionale, piena di vicoli contorti e di piazzette segrete, come la Napoli di Marotta, come la Roma di Gregorovius. Una città in cui vetro e cemento non hanno ancora la meglio sui mattoni scalcinati e le crepe. Dove l’imperfezione e l’ombra viva, le chiacchiere di quartiere, gli stendini carichi di panni si contendono col marmo e la pietra nobile dei quartieri ricchi il paesaggio urbano. Una città già in via di estinzione, ma che lotta in certe zone per resistere, dando vita ad aggregati disordinati e ribelli, terribili e affascinanti.
Una città grigia di caligine e di rabbia
Il primo scorcio di Milano secondo Buzzati si ha alle primissime pagine dell’opera. Ed è, per la verità, una Milano familiare soprattutto a chi non la ama molto. Segue lo stereotipo alla perfezione, in effetti, dipingendo attraverso gli occhi del protagonista una città industriale opprimente e con ben poche attrattive:
Era una delle tante giornate grigie di Milano, però senza la pioggia, con quel cielo incomprensibile che non si capiva se fossero nubi o soltanto nebbia al di là della quale il sole, forse. Oppure semplicemente caligine uscita dai camini, dagli sfiatatoi delle caldaie a nafta, dalle ciminiere delle raffinerie Coloradi, dai camion ruggenti, dalle fogne, dai cumuli di detriti immondi rovesciati sulle aree fabbricabili della periferia, dalla trachea dei milioni e milioni – erano tanti? – assembrati fra cemento, asfalto e rabbia intorno a lui.
Lo scenario è di una desolazione irredimibile, che fa mancare il fiato. Sembra, questo, un luogo in cui non sia possibile alcuna forma di bellezza, mai. Eppure…
Milano secondo Buzzati, però, è anche altro
Eppure, basta un nulla perché la prospettiva cambi. Basta una passeggiata, una sera, in un quartiere conteso fra modernità e antico, tra Largo della Foppa e Piazza Castello. Qui, tra fine estate e l’autunno,
verso il centro, la strada assume una grande intensità di Milano. Le case perlopiù vecchie o vecchissime, da una parte e dall’altra. I negozi uno dopo l’altro. Anditi bui che s’ingolfano verso tetri e strani cortili. Ma i marciapiedi formicolano di gente e non è quel fermento incomprensibile, squallido e quasi disperato che alla sera si espande per esempio in certi quartieri di Napoli, è una animazione piena di vita, popolaresca, gaia, non miseria, attesa e abbandono, fretta se mai, preoccupazione di non arrivare in tempo. E le facce – sarà magari un’impressione – sembrano meno tirate, ansiose e atone che in tante altre contrade della città, anche più centrali, ricche e moderne.
Dal fascino di una ragazza a quello di una città
E basta una donna giovane, bella, che cammina con passo sicuro e altero attraendo l’attenzione di Dorigo, che non può fare a meno di seguirla. Non è nemmeno che voglia infastidirla: dapprima è il suo sguardo a metterlesi alle calcagna, i suoi passi la seguono soltanto. E arrivano a un punto preciso di Corso Garibaldi che racchiude il cuore del fascino della Milano secondo Buzzati.
La giovane si infilò nel vicolo tra il numero 72 e il numero 74. […] Antonio si fermò all’imbocco del vicolo fissando la svelta silhouette che si allontanava controluce perché in fondo c’era un cortiletto o uno slargo abbastanza illuminato. […] Osò entrare anche lui. Al termine del breve budello si trovò nella minuscola piazza che si è detta. Da cui si irraggiavano fra casa e casa, altre stradicciole e cunicoli. Gli passò accanto un garzone con un vassoio pieno di paste. Una donna anziana, affacciatasi a chiudere le imposte di una finestra al piano rialzato, guardò Antonio con curiosità. Anche tre bambini che stavano giocando alle biglie sotto un lampione, si voltarono a osservarlo.
Dall’intrico delle case intorno, tutte a ballatoi paralleli, venivano voci, rumori e suoni. Si sentiva un martello battere su qualcosa di metallico. Un odore di zuppa con aglio, appetitosissima. Era come un piccolo paese incistato fra lo schieramento delle case. Un pezzo di Milano imprevedibile, di cui non aveva mai sentito parlare. A parte le luci elettriche, e una Vespa lasciata dinanzi a una porta, tutto era come un secolo, due secoli prima.
Alla ricerca di un tempo perduto
Milano secondo Buzzati, quantomeno in Un amore, è tante Milano. È la città simbolo del progresso, dell’industria, della produttività e dell’avanguardia, però è anche la città che sembra aver perso per strada la bellezza. È nobile, altolocata e un po’ snob, come ci si attende da uno dei centri primari della cultura italiana; eppure, è anche popolare, chiaroscurale e antica. È il palcoscenico di una vita borghese sconvolta da un amore appassionato che cozza fortemente con questo contesto antiromantico, pur dialogando con esso nondimeno.
Ed è senz’altro una città diversa da quella che le giovani generazioni conoscono, più fredda e frenetica. Questo, proprio questo forse mi mette malinconia: che quell’abitare, quel paesaggio urbano, a due velocità, a due tradizioni, noi non lo sperimenteremo. Onestamente, non so se sia possibile aver nostalgia di un luogo che non si è mai vissuto ma solo letto. Della Milano popolare di Buzzati, delle case di ringhiera, di quei vicoli e della loro gente, però, leggendo Un amore ho davvero sentito la mancanza.