Il 30 novembre 2016, presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, si è svolta la prima giornata di un convegno internazionale incentrato sul tema delle migrazioni, dal titolo: “Mutare sedem”. Figure di spicco dell’ambiente universitario italiano sono intervenute nel corso di questo evento, in cui il tema dell’emigrazione è stato affrontato sotto un punto di vista interamente culturale e linguistico. Un tema che affonda le sue radici in tempi lontani e che sembra investire ancora notevole importanza nello scenario contemporaneo. E’ evidente come, dalle società antiche a quelle moderne, il fenomeno della migrazione sia stato indagato attraverso ottiche alquanto eterogenee ed in rapporto alle ragioni sociali, politiche e storiche che ne hanno determinato il manifestarsi.
Si potrebbe dire che, nell’epoca contemporanea, siamo abituati ad analizzare tale fenomeno sotto una luce tipicamente sociale e politica. Ormai la parola “immigrati” è divenuta parte integrante della coscienza collettiva ed aumenta sempre più la percentuale di coloro che si recano nella patria italiana, guardando ad essa o come territorio in cui cercare rifugio e sperare in un miglioramento delle proprie condizioni di vita, o come territorio di transizione da cui muovere verso mete europee. L’aspetto interessante, però, è che pochi guardano alle implicazioni linguistiche ad esso connesse e su cui, invece, il convegno ha posto la sua attenzione.
A tal proposito, tra i vari interventi registratisi durante la giornata, ve ne è stato uno che ha posto ben in evidenza le implicazioni cui accennavamo poc’anzi. Il professore Nicola De Blasi, docente ordinario di Linguistica italiana nell’Università di Napoli “Federico II”, ha giustamente notato come nell’italiano contemporaneo non vengano più utilizzate parole usufruite negli anni precedenti con connotazioni piuttosto negative, quali: vucumprà, extracomunitario e clandestino; oggi sostituite da: migrante, richiedente asilo e infine rifugiato. Pertanto, almeno da un punto di vista meramente lessicale, si è cercato di smorzare l’immagine negativa connessa al loro utilizzo.
“Se poi andiamo ad un altro punto, possiamo vedere come sono stati produttivi nel tempo i contatti con le persone provenienti dall’esterno“. Basandoci sulle statistiche elaborate in anni recenti, pare che la percentuale di stranieri nel nostro territorio si aggiri intorno ai sette milioni di persone, il che vuol dire che è considerevolmente aumentata la quantità di tali individui all’interno delle nostre scuole. Ed in merito a ciò, De Blasi afferma: “Sono presenze straniere di persone che vengono qui o sono nate qui, alle quali noi in qualche modo ci troviamo, siamo in dovere di insegnare l’italiano. Per fortuna direi. Perché diciamolo, l’importanza dell’insegnamento dell’italiano è stata un po’ sottovalutata negli ultimi decenni e non mi riferisco all’insegnamento dell’italiano agli stranieri, mi riferisco all’insegnamento dell’italiano agli italiani. E la presenza di tanti stranieri, invece, ci richiama salutarmente a questa necessità”.
E’ un dato, questo, particolarmente interessante. Al di là degli impatti che il fenomeno delle migrazioni può avere sul nostro territorio in ambito sociale e politico, è importante notare come esso agisca da vera e propria leva per la diffusione e il corretto apprendimento della nostra lingua. Concetto spesso posto in secondo piano o a cui non si presta l’attenzione dovuta. “Oltretutto, la presenza degli stranieri ci permette anche di capire che insegnare l’italiano non significa soltanto insegnare grammatica, cioè fare gli elenchi dei complementi o delle proposizioni. In realtà proprio la presenza degli stranieri nelle classi ci richiama alla necessità di pensare all’insegnamento dell’italiano come buon uso della lingua, della comunicazione scritta e parlata”. In un’ottica culturale, il fenomeno delle migrazioni funge così da ingrediente per una rivalutazione ed un miglioramento delle nostre capacità linguistiche. La presenza degli stranieri ci spinge necessariamente ad usufruire dell’italiano nel modo corretto, prima ancora di procedere all’insegnamento di esso. “Perché se è vero che non si può amare il prossimo senza amare se stessi, non si può amare la lingua degli altri se non si ama la propria”.
Valentina D’Anna