Attualmente ci sono 9 hotspot attivi in Europa: 5 in Grecia, rispettivamente nelle città di Lesbo, Chios, Samos, Leros e Kos; e 4 in Italia, nelle città di Taranto, Messina, Lampedusa e Pozzallo. Questi, istituiti nel 2015, hanno una capienza di circa 8.000 posti in totale. A dicembre 2017 il numero di profughi trattenuti superava di oltre due terzi la capacità massima, con circa 15.000 persone solo in Grecia. Attualmente la pandemia aggrava l’emergenza hotspot, con numeri in forte crescita e situazioni estreme.
Claiming that they are “exposed to the #coronavirus“, asylum seekers at the reception and identification centre for #refugees in #migrants in Moria #Lesvos, on Wednesday staged a protest outside the entrance of the hotspot#migration #COVIDー19 #Corona https://t.co/U3MAo9Jmm4
— ANA-MPA news (from 🏠) (@amna_newseng) April 22, 2020
Ma andiamo per gradi.
Che cosa sono gli hotspot e perché sono così sovraffollati?
Gli hotspot sono stati fortemente voluti dall’Unione Europea nel 2015, quando la crisi migratoria aveva raggiunto il suo apice. Si tratta di centri a gestione dei governi locali, affiancati da funzionari di agenzie europee come Europol, Eurojust, Frontex ed Easo, attrezzati per l’identificazione dei migranti che hanno intenzione di presentare richiesta d’asilo. La funzione è quindi quella di registrare i dati personali dei migranti, fotografarli e raccoglierne le impronte digitali entro 48 ore, il limite massimo stabilito dalla legge per la permanenza dei singoli migranti nei centri. Questo tempo è estendibile a 72 ore in casi eccezionali.
La triste realtà è che i tempi di permanenza medi a Lampedusa sono di 10,5 giorni. Ben più grave è la situazione in Grecia, dove si raggiungono permanenze che vanno dai 6 mesi ai 2 anni. I tempi lunghissimi di attesa in questo limbo sono dettati da modelli europei poco performanti.
La situazione degli hotspot in Grecia
Fin dall’inizio, la pandemia aggrava l’emergenza hotspot. Il governo greco ha imposto il lockdown a tutti gli hotspot del paese come misura preventiva contro il coronavirus. Nonostante questa decisione, sono stati riscontrati diversi casi di infezione all’interno dei centri.
In risposta, le organizzazioni umanitarie, come Medici Senza Frontiere, e l’Unione Europea hanno sottolineato l’importanza di ridurre il sovraffollamento degli hotspot e di evacuare i campi profughi sulle isole. Il 25 marzo, il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli (ECRE) ha pubblicato una lettera aperta firmata da 121 organizzazioni e rivolta alle autorità greche, europee e delle Nazioni Unite richiedendo misure di detenzione alternative per assicurare la salvaguardia della salute dei rifugiati. In particolare, è stata richiesta la garanzia di effettuare i tamponi ai rifugiati e di riallocarli in sistemazioni dove è possibile garantire il mantenimento della distanza di sicurezza e norme igieniche di base, come lavarsi le mani.
Il 20 aprile, il ministro greco per i migranti ha annunciato l’evacuazione di 1500 persone tra i gruppi a maggior rischio dal campo di Moria. I profughi sono stati spostati in sistemazioni temporanee nella Grecia continentale.
Residents of Mouries village in northern Greece are protesting the arrival of around 300 asylum seekers deemed vulnerable by Greek authorities. They were transferred from the crowded site in #Moria on #Lesvos in order to be housed in a currently disused hotel run by @IOMGREECE. pic.twitter.com/F7KmdXFvuq
— Daphne Tolis (@daphnetoli) May 4, 2020
Al momento, negli hotspot greci sono trattenute quasi 42.000 persone, che vivono in condizioni terribili. Molto spesso i campi non hanno le disponibilità per garantire il rispetto delle condizioni igienico-sanitario di base. Ad oggi, Moria, il campo profughi di Lesbo, è tristemente noto per il suo sovraffollamento. Secondo uno studio delle Nazioni Unite, il campo è attrezzato per circa 2.200 posti, ma ospita oltre 18.000 persone.
La situazione degli hotspot in Italia
La situazione in Italia è meno drammatica se paragonata alle Grecia, ma anche nel Bel Paese la pandemia aggrava l’emergenza hotspot. Anche qui, già da molto tempo prima dell inizio dell’emergenza sanitaria, precisamente a settembre dello scorso anno, Lampedusa versava in situazione di sovraffollamento.
All’inizio della pandemia l’Italia, per la prima volta nella storia, ha dichiarato “non sicuri” tutti i porti nazionali, in un tentativo di fermare, o almeno rallentare, gli sbarchi di migranti. Questo sistema ha avuto un successo solo relativo, poiché nonostante gli sforzi, diverse imbarcazioni senza scorta sono comunque riuscite ad approdare in Sicilia.
#Italy New decree signed to declare seaports unsafe & avoid disembarkations. “For the entire duration of the health emergency, due to #coronavirus, Italian ports cannot be classified as ‘safe places’ for the landing of people rescued from boats flying a foreign flag.” pic.twitter.com/DRwipgTiYu
— Sara Creta (@saracreta) April 8, 2020
Il 21 aprile gli hotspot di Lampedusa, Pozzallo e Messina hanno registrato circa 220 presenze. Oltre alle persone ferme negli hotspot, altre 200 persone sono state inserite in strutture di accoglienze create ad hoc nelle varie province siciliane per garantire la quarantena dei migranti appena sbarcati, in seguito a persone risultate positive al test. Altre 149 persone sono state trattenute in isolamento su una nave ancorata nel porto di Palermo.
La situazione di collasso e sovraffollamento degli hotspot non è una novità e si era già manifestata in passato. Il propagarsi della pandemia di coronavirus nel mondo, però, ha reso impossibile rimpatriare i migranti non eleggibili per la richiesta di asilo a causa della chiusura dei confini nazionali di gran parte dei paesi. Questo elemento ha contribuito all’estremizzazione di una situazione già compromessa.
Noemi Rebecca Capelli