Il malessere di un migrante è determinato anche dal suo stato mentale.
Da qualche anno a questa parte la parola migrante è diventata una delle più famigliari quando si trattano argomenti di attualità e di politica. L’attuale crisi migratoria sembra quasi essere il centro nevralgico attorno al quale tutto gira: politiche pubbliche, politiche interne versus politiche europee, terrorismo, insicurezza sociale, crisi delle leadership politiche.
Ogni giorno si sentono nuove notizie sugli sbarchi, sulle tragedie in mare, sulle tensioni di confine, sulle proteste e su individui sospettati di estremismo religioso. Ogni giorno se ne parla, in un modo o nell’altro. Ma oltre alle frasi più comuni, dette e ridette fino alla nausea, risulta difficile andare oltre “lo sbarco”, oltre “dove li piazziamo?”, “ci costano troppo”.
Quello che nessuno considera quasi mai è il trauma psicologico che spesso deriva dopo aver affrontato un viaggio così pericoloso e incerto come quello di un migrante. L’eventuale accoglienza non cancella il disagio, la paura e la sofferenza sperimentati durante la traversata.
La separazione dalla famiglia è già di per sé un trauma. A questo si aggiunge lo shock culturale che un migrante vive nel momento in cui viene a contatto una realtà differente da quella in cui ha sempre vissuto. Il distacco dal proprio paese e dalle usanze sociali che hanno contribuito alla sua caratterizzazione come persona, come individuo, incide profondamente sullo status psichico.
Oltre a questa sofferenza quasi inevitabile, rischiano di aggiungersi i traumi derivanti da violenze, abusi e torture. Fatti che possono sembrare incredibili, ma che costituiscono una realtà concreta e documentata.
Ad incidere profondamente sul benessere o malessere psicologico del migrante è anche il momento dell’arrivo e dall’accoglienza. I luoghi in cui si ritrova, le persone con cui entra in contatto, tutto diventa determinante per il migrante che si ritrova ad attuare quasi una “tabula rasa”. Per poter poi ricominciare con una nuova identità, nuovi obiettivi.
Esclusione sociale, sguardi diffidenti o di disprezzo, atteggiamenti ostili e discriminatori incidono in modo significativo sulla psiche già fragile del migrante che, oltre a ritrovarsi spaesato e spaventato, si vede respinto e trattato come un problema.
Sono tutti aspetti che spesso si ignorano, fino a quando l’evidenza appare chiara ed innegabile davanti agli occhi. Fino a quando non vediamo un giovane, un ragazzo di appena ventidue anni, gettarsi nelle acque gelide di Venezia.
Anche in questo episodio così tragico, qualcuno rimane indifferente. Nessuno che abbia provato davvero a salvare Pateh Sabally. Urla di disprezzo a cui sono seguite parole orribili, diffuse tramite i social.
La gente sembra essere troppo concentrata sul fastidio, sul disprezzo, sull’odio, per guardare alla sofferenza di altri esseri umani.
Radavoiu Stefania Ema