Sempre più numerosi gli ambiti di utilizzo di microchip sottocutanei, dallo shopping al medicale
C’era una volta Kevin Warwick, scienziato, primo uomo a impiantarsi un microchip sotto pelle. Accadeva nel 1998 in Gran Bretagna. Dopo quasi venti anni, secondo il Wall Street Journal sono attualmente tra 30mila e 50mila le persone che oggi hanno un microchip sottocutaneo, divenendo essi stessi quasi dei ‘dispositivi’.
Il medesimo discorso vale anche per altre attività, come lo shopping. Basti pensare che in Australia un biohacker è già al lavoro per rivoluzionare gli scambi economici ampliando la capacità dei chip Rfid. In questo contesto, sarà possibile lasciare a casa banconote e carte di credito e fare acquisti semplicemente muovendo un dito.
Certo, mi direte che i microchip oramai sono parte integrante della nostra esistenza digitale, che il fatto di essere controllati e controllabili ci trasforma in una sorta di dispositivi ambulanti, ma il pensiero di avere impiantato in un braccio o in una mano o in qualsiasi altra parte del nostro corpo una minuscola memoria, be’, forse questo è un tantino diverso.
I produttori di microchip anticipano che tali sistemi prenderanno sempre più piede nella nostra vita, specialmente in campo medico. In questo caso il microchip potrà immagazzinare informazioni importanti in caso di interventi d’urgenza, durante i quali si potranno conoscere in tempo reale patologie, terapie e particolari condizioni mediche.
Numerose le critiche giungono dal mondo accademico inglese, secondo il quale affidare informazioni personali così rilevanti ad un chip potrebbe essere dannoso se ad utilizzarlo sono, ad esempio, persone che soffrono di demenza o altre patologie psichiche, che non le renderebbero quindi capaci di esprimere il proprio consenso per pratiche di questo tipo.