Le microaggressioni razziali generano pareri contrastanti. L’attenzione verso questo razzismo invisibile è un appello all’autoconsapevolezza.
Il termine microaggressioni razziali è stato proposto per la prima volta nel 1969 dallo psichiatra Chester M. Pierce per descrivere insulti e rifiuti regolarmente perpetrati a persone di origine afroamericana da parte di americani non neri. Molti studi hanno amplificato la definizione negli anni, che oggi fa riferimento a tutte quelle espressioni razziali sottili che spesso risultano invisibili sia per chi le opera che per chi le subisce. Infatti, il prefisso “micro” non descrive la qualità di queste aggressioni, ma il modo subdolo in cui questo genere di discriminazione viene messa in pratica.
Gli studi sulle microaggressioni razziali analizzano il modo in cui persone bianche, che spesso credono e professano consapevolmente l’uguaglianza, agiscono in modo razzista anche se ben intenzionate. Tra i casi presi in esame, queste analisi riportano comportamenti tipici in situazioni ambigue che mettono in evidenza le forme di pregiudizio razzista che ne muovono le scelte. Un esempio sono le interviste svolte durante alcuni colloqui di lavoro. Secondo i risultati, l’attitudine a non discriminare i candidati neri quando le loro qualifiche sono allo stesso livello di forza o debolezza rispetto a quelle dei candidati bianchi si scontra con la tendenza a privilegiare questi ultimi nel momento in cui le qualifiche presentano un certo grado di ambiguità.
La classificazione delle microaggressioni razziali
Lo psicologo e insegnante della Columbia University Derald Wing Sue ha proposto nel 2007 la prima classificazione delle microaggressioni razziali. Lo studioso cita tre principali tipologie:
- le microaggressioni: azioni intenzionali e coscienti che presentano sottili forme di razzismo e che possono essere svolte anche in buone intenzioni, come ad esempio l’uso di epiteti razziali o il servire deliberatamente una persona bianca davanti a una persona nera in un ristorante.
- i microinsulti: forme di comunicazioni verbali o non verbali che sminuiscono l’eredità o l’identità razziale di una persona, come ad esempio il chiedere il modo in cui si è ottenuto un lavoro sottintendendo l’illegittimità basata su pregiudizi nel poter praticare certe occupazioni invece di altre.
- le microinvalidazioni: affermazioni e credenze che sottilmente escludono, negano o annullano i pensieri, i sentimenti o la realtà esperienziale di alcune persone in base a pregiudizi razziali, come ad esempio il chiedere a una persona nera che abita in un Paese in genere considerato a maggioranza bianca dov’è nata, presupponendo la sua necessaria estraneità al Paese.
Una tematica controversa
La tematica delle microaggressioni razziali non è considerata in maniera unanime. Alcune critiche hanno accusato il lavoro di Sue di rafforzare una mentalità vittimista tesa a creare problemi dove non esistono, ad allargare la rabbia e le opposizioni e a scoraggiare una cultura dell’opportunità. Queste contestazioni citano come possibile alternativa da parte di chi tende a sentirsi vittima di eventuali microaggressioni razziali quella di considerarle come mere espressioni di ignoranza, dunque restarne indifferenti piuttosto che provarne rabbia.
Tuttavia è importante considerare che le microaggressioni razziali sono spesso espressione di un razzismo sistemico, integrate nella cultura e nella società e per questo normalizzate. Ad esempio, uno studio del 2007 sulla diversità culturale e la psicologia delle minoranze etniche raccoglie le impressioni di estraneità al Paese vissute da molti asiatici-americani. Il riferimento è l’esperienza di persone che chiedono loro dove sono nati o apprezzano il loro “buon inglese”. Inoltre, alcune partecipanti di sesso femminile riportano la sensazione che gli uomini bianchi interessati a uscire con loro presumano una loro naturale sottomissione sessuale all’uomo.
Svelare l’invisibile per stimolare l’autoconsapevolezza
Un atteggiamento utile per comprendere l’impatto delle microaggressioni razziali, e fuggire dal rischio di cadere in forme di paternalismo, è ascoltare come chi si trova in queste situazioni le percepisce e le interpreta. Uno studio qualitativo pubblicato nel 2008 da Sue e i suoi colleghi mette in evidenza le percezioni, le reazioni e le interpretazioni delle microaggressioni razziali da parte di 13 afroamericani tra i 22 e i 32 anni, studenti o lavoratori in ambito educativo nell’area metropolitana di New York. Queste interviste evidenziano sentimenti condivisi generati dall’esperienza di microaggressioni razziali, come il senso di non appartenenza al Paese e la percezione di essere considerati anormali o inaffidabili. Alcune delle situazioni citate dagli intervistati sono l’essere guardati con sospetto nei negozi, come se si stesse per rubare qualcosa, o la necessità di operare azioni preventive per limitare l’impatto della propria razza sull’altro.
Oltre alla derivazione sociale e culturale che si portano dietro, le microaggressioni razziali sono spesso espressione di una paura del diverso che affonda le radici in uno strato più profondo rispetto agli atteggiamenti di cui spesso si riesce ad avere coscienza. Per questo motivo, attraverso i suoi studi Sue afferma l’importanza di continuare a far luce sui danni che questi atteggiamenti possono infliggere, indipendentemente da come le persone coinvolte, e in particolare chi subisce, decidono di gestire le situazioni. Come esplicita lo studioso, “è necessario rendere visibile l’invisibile” per poter comprendere che certe azioni e atteggiamenti possono essere discriminatori. Si tratta dunque di un appello all’autoconsapevolezza su comportamenti, atteggiamenti e credenze personali e sul modo in cui questi possono influire sulle altre persone e al contempo perpetrare atteggiamenti razzisti e omofobi.
Stella Canonico