Michele Monina è il critico più critico della musica italiana. Fuori dagli schemi, ha sempre raccontato il suo punto di vista, senza preoccuparsi delle conseguenze. Il suo articolo “Completamente sold-out stocazzo” è diventato un must di lettura nell’ambiente musicale. Ha fatto incavolare Laura Pausini e i suoi fan. Ma non solo. Ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Linkiesta e Rolling Stone per poi allontanarsi da tutto e tutti e lanciare la sua campagna ‘Molina Si, Molina No’: un crowdfunding (appoggiato – tra gli altri – da Vasco Rossi e Ligabue) per lanciare il suo magazine. Ma ancora non se ne sa nulla.
Uno degli articoli musicali più virali degli ultimi anni è il tuo ‘Completamente sold-out stocazzo‘. Tra le righe ci sono riferimenti ai TheGiornalisti che oggi sono uno tra i gruppi più noti della scena italiana, guidati da Tommaso Paradiso, tra gli artisti più seguiti in assoluto (dal punto di vista musicale e non). A distanza di tempo, la tua, non può essere considerata una critica a quella che si è rivelata un’operazione perfetta?
Non citavo tra le righe i Thegiornalisti. Provocatoriamente partivo proprio da loro, il titolo fa il verso al loro album, per raccontare un sistema. Il fatto che sia un sistema che funziona non mi sembra rilevante, perché non sono un sociologo ma un critico musicale che, per necessità, ha deciso di raccontare oltre che la musica il sistema. Anzi, forse il fatto che quel sistema funzioni rende il mio ragionamento ancora più ficcante.
Oggigiorno per collocare la propria musica nel mercato, bisogna sfruttare sempre più l’immagine dell’artista. Ce lo impongono i nuovi social. Tutto è così rapido, non interessa più a nessuno fare pezzi che restino nel tempo. E’ un cane che si morde la coda o ancor più un criceto che corre nella palla: è una bolla fatta di mode, consensi, numeri; ci sono gli artisti che si sentono tali ma se lo si è troppo, si rischia di non esser troppo capiti in questa frenesia generale. Funziona il trash, funziona il già visto, vince sempre il superficiale. Se tutto questo è condito da due belle tette e da un bel culo, è ancora più semplice. E il bello è che sembrano tutti felici. Io, invece, pensando alla musica, non al mercato, mi incupisco se penso al domani. Tu, come lo immagini?
Guarda, sul discorso delle tette e dei culi non sono d’accordo. Da noi non funzionano, infatti nessuno li mostra, col risultato che restano solo gli stereotipi e non i corpi (a questo ho dedicato un monologo teatrale, Cantami Godiva, portato in scena con Ilaria Porceddu e con ospiti Noemi, Patrizia Laquidara e la Rappresentante di Lista, oltre che un TedX fatto a Matera). Sul resto credo resti valido quanto dicevo l’anno scorso Bello, mi e’ piaciuto specialmente questo: “La musica di oggi nn ci sarebbe stata senza il punk e senza il rap, due generi nati da non musicisti. Ma la meticolosa esclusione di aspetti fondanti della musica, come appunto armonia, dinamica e anche melodia, a vantaggio di un sistema di fruizione più che di mondo sonoro, appare un pericolo da evitare, più che un fine da perseguire.”
Si, pur considerando che io mi riferisco a un mercato più ampio che va al di là di quello italiano, mi dici quindi se – secondo te – l’aspetto fisico non ha influenzato l’esposizione di alcune cantanti come Roshelle, Baby K o Elettra Lamborghini?
Hai la percezione che Roshelle e la Lamborghini abbiano lasciato un minimo segno? Direi di no, proprio perché l’esposizione di tette e culi è del tutto pretestuosa e poco o per niente legata alla poetica. Diverso è per Baby K, decisamente più pervasiva, ma nel suo caso l’essere femmina e esporsi come tale, è un compendio alle sue canzoni, che in maniera leggera parlano di desiderio come soggetto e non come oggetto (esattamente all’opposto delle altre due).
Tra le altre cose, sei un critico musicale. Quanto è diventato frustrante fare questo lavoro nell’era in cui o assecondi le mode o sei un rosicone e i giornalisti danno retta ai numeri e non al gusto? Hai avuto innumerevoli attacchi a seguito dei tuoi articoli, da parte sia degli artisti che dei loro fan. Come ci si sente a essere te, in questo mondo dove chiunque va – al contrario – alla ricerca del consenso, anche a discapito delle proprie idee?
Monina: Io ho scelto di essere riconosciuto principalmente come critico musicale, ponendo questo ruolo sopra gli altri che svolgo. E proprio il mio farlo da uomo libero, in un mondo di pecore, mi ha dato una visibilità clamorosa, oltre che una credibilità rara. Gli attacchi sono conferme di quanto sto facendo di buono, specie quelli fatti alle spalle da parte dei colleghi. Non posso essere tacciato di essere rosicone, perché nel mio campo non credo di avere qualcuno cui guardare con invidia. Anzi.
La musica ha da sempre veicolato cultura che alcune volte è stata – come per ogni buon paradosso – definita il contrario di se stessa, ovvero ‘contro cultura’. Quindi se da una parte c’erano il pop o la disco, dall’altra troviamo il rap, il reggae, l’afrobeat, il jazz, il punk, il metal: la ribellione, il pensiero rivoluzionario. Oggi tutti questi generi vanno a braccetto con il mainstream che ci passa un po’ ogni cosa come una rivisitazione pop di se stessa. Quello che mi chiedo, e ti chiedo è: non pensi che il motivo per cui negli Stati Uniti ci sia Trump, in Italia Salvini venga osannato come leader politico, le destre dilaghino ovunque, sia anche per questo aspetto più legato all’appiattimento culturale più che al mal contento dovuto alla (perenne) crisi? Se oggi non ci sono gruppi simili ai Clash, ma – al contrario – abbiamo i Maneskin, è una causa dell’attuale situazione politica o una conseguenza?
Io credo che ci siamo tutti semplificati, appiattiti. Dovrei dire imbarbariti. Salvini e Trump sono una conseguenza di questo, più che una causa. Se la gente si analfabetizza poi ragiona a cazzo e vota a cazzo. Esistono belle sacche di resistenza, e se penso a dischi usciti recentemente, da Rancore alle stesse La Rappresentante di Listae Patrizia Laquidara, o anche Mimosa, Chiara Dello Iacovo o Leda, penso che basti cercare bene e qualcuno che ancora fa controcultura e quindi cultura c’è. Per fortuna.
Carmine Errico