Meridiano Zero, l’ultimo solstizio dei tecnoribelli (neri)

Meridiano zero – Nella mischia, oltre la linea. Metapolitica fuori dagli schemi, dalla parte del torto. Roma 8 Settembre 1991, un quarto di secolo fa.

Maurizio Martucci

Di Maurizio Martucci

A Villa Celimontana il primo incontro: da un lato lo slancio giovanile di un microscisma inquieto, dall’altro l’incandescente macromagma dell’implosione ideologica. Risultato?

 

 “Non ci interessano stupide parodie folkloristiche, dobbiamo abbandonare qualsiasi forma di esaltazione e romanticismo per nuovi e più impegnativi terreni di scontro: le ideologie sono morte!” Dal confino catacombale dell’emarginazione, la via d’uscita suggeriva virate verticali, per affrontare senza complessi d’inferiorità il rapporto col mondo moderno. Quando l’intruso in patria fiutò l’esigenza di puntare al disgelo, senza inibizioni. Fuori il maleodorante Palazzo dell’establishment si provò a teorizzare una soluzione aristocratica da Stato Organico, partendo dalla metafora del guerriero-contadino, seminando temi mobilitanti per schivare scenari distopici, oggi più di ieri tremendamente attuali: dominio dell’economia, consumismo destrutturante, mercificazione dell’esistenza, sottomissione alla tecnica nella società del controllo. Tutto nell’occulto calderone. “Né destra, né sinistra. Le istituzioni sono in decomposizione, non ci interessa la lotta alla partitocrazia.” Due anni dopo i crolli murali di Berlino. Nell’anno della svolta rossa alla Bolognina. A ridosso del tintinnio di manette pel malaffare di Tangentopoli. Quattro anni prima della mutazione governativa a Fiuggi, quando Gianfranco Fini s’era appena ripreso la fiamma del MSI, ai minimi storici col superamento dell’anticomunismo, sprofondata nello sfondamento a sinistra teorizzato dal nazional-popolare Pino Rauti. Proprio qui dentro, nell’ostentata diversità della galassia extraparlamentare romana, i fuoriusciti dal Fronte della Gioventù di alemanniana reggenza (dissidenti sulla guerra del Golfo) sposarono il segno dell’indoeuropea Algiz, braccia levate al cielo, vita a volto scoperto: nel 1991 dirigenti e militanti di un pugno di sezioni osarono svecchiarsi fondando Meridiano Zero, perché “contrari alla manipolazione genetica, in difesa di tutto ciò che è naturale, contro lo sviluppo tecnologico selvaggio”, cibernetico e informatico, uscendo dalle ingombranti gabbie del ‘900, visto che “il neofascismo commemorativo ci è estraneo. Il fascismo e il nazismo ci interessano come fasi storiche rappresentative di valori etici, ma noi ci occupiamo del futuro: siamo solo un gruppo di giovani non omologati alla massa”.

Promuovendo comitati di controllo sullo sviluppo tecnologico, Rainaldo Graziani (il capo dei tecnoribelli) citava volentieri Edgar Morin e Stefano Rodotà: è figlio del più noto Clemente, il discepolo di Julius Evola l’eretico, fondatore e guida del fuori legge Movimento Politico Ordine Nuovo (ricostituzione del disciolto partito fascista). Prefigurando l’abbandono di posizioni clandestine e battaglie retrograde, dalla latitanza in Paraguay, nel 1991 ‘Lello’ (vecchio indomito leader) scriveva della “necessità di predisporre strategie per uno schieramento di forze la cui mobilitazione non è più ristretta al nostro orizzonte ideologico ma viene estesa a tutti coloro che passeranno al bosco, che si ribelleranno alla tecnocrazia, una sovranità controllatrice esercitata da spiriti mutili e mutilatori”. L’intuizione sul pericolo nichilista d’era moderna, in un’esistenza artificiale all’alba di una carneficina d’anime mascherata nel progresso tecnocratico dei nuovi Titani, muoveva dalla letteratura del centenario Ernst Jünger, da un libro tradotto nel 1990 come ‘Il trattato del Ribelle’. Per sopravvivere alla fagocitante transizione, l’evoluzione dell’anarca partigiano (diverso dal delinquente perché – chiariva Jünger – più che spezzare la legge, vorrebbe cambiarla) si sarebbe incarnata nell’originale figura del Ribelle, “il singolo, l’uomo concreto che agisce nel caso concreto”, braccato da mondialismo e globalizzazione, ma ugualmente capace di lottare, spingendosi dalla ‘piccola guerra santa’ al traghettamento, per riappropriarsi delle ‘libertà naturali’ compresse da un pervadente sistema tirannico, elusa la trappola del voto elettorale. Ogni forma di resistenza disinteressata, anche individuale, avrebbe transitato ‘al bosco’ dissociandosi, fusa in un bagno alchemico in dantesco Arno, ritirandosi nella foresta, varcato il Greenwich nell’ascesi autorealizzatrice per “la formazione di uomini nuovi”. Weltanschauung, il sogno di temerari lupi tra pecore belanti avrebbe costruito un esercito di liberazione, l’inno di una rivolta primordiale al tramonto del XX secolo. Utopica revolutio.La tecnocrazia determinerà nuovi scenari: l’economia domina la politica tramite la ricerca scientifica e noi siamo contro, perché la tecnica deve essere messa a servizio dei popoli.”

L’immagine del cavaliere medievale di Albrecht Dürer, lancia in resta e sigillo runico, sfilò compatta nel corteo tra Via Cavour e Piazza Venezia: fila serrate nello slogan ‘contro la colonizzazione tecnocratica, milizia, tradizione, rivoluzione’, reclamando una ‘rinascenza europea’ per bilanciare le storture di mondialismo, usura, sfruttamento, egoismo e parlamento, propaggine del Nuovo Ordine Mondiale. Perché “il potere tecnocratico vuole uccidere l’uomo, profanando il mondo, rendendo artificiale l’esistenza, arrestando il corso della storia, sopprimendo ogni forma di cultura, cancellando ogni senso di appartenenza, ogni etnia, ogni nazionalità. Utilizzando gli strumenti offerti dalle tecnologie avanzate questa nuova forma di totalitarismo planetario pretende di omologare uomini e popoli in unica ed avvilente tipologia: quella del consumatore, dell’utente il cui scopo sia generare profitto”.

Senza spinte esoteriche né riti magici, Meridiano Zero solennizzava il Natale di Roma sul Palatino e sulle vette innevate d’Abruzzo il culto del sole invitto nel Solstizio d’Inverno, sostenendo “una società etica e spirituale”. Più che contro il suo progresso lineare, nel solco della tradizione si tentò un conflitto culturale contro l’accezione totalizzante di tecnica, ‘poteri forti’ e tecnocrazia apolide, forzando l’ascesi di un mondo sommerso, restaurata una massa critica in grado di aprire scenari inediti e un segmento di nicchia nel pubblico dibattito, posizionando l’inusuale sigla ‘MZ’ tra la Nouvelle Droite francese (Alain de Benoist) e l’omonima italiana (Marco Tarchi). Dopo Fahrenheit 451, quando la filmografia portava in sala Il Tagliaerbe e in VHS girava la trama di Brazil, il ricercato Archibald Harry Tuttle s’era fatto testata per giovani studenti, ‘Mister Tuttle’ bollettino ‘ciclostilato in proprio’ per aggregare tecnoribelli nelle scuole superiori. “Epitaffio per un imbecille” se la prese poi con “l’ipocrisia schifosa che evita grane”, l’indifferenza borghese dell’uomo qualunque, di quel qualunquista gettato nell’Ade da Caronte senza lasciar terrena traccia di un’esistenza anonima, secolarizzata nel nihil esse massificato, quando internet e telefoni cellulari (tumorali per Cassazione dal 2012) non erano ancora ubiquitari e i volantini a marcare il territorio d’appartenenza stavano come la colla artigianale sotto i manifesti: nello sguardo inorridito di (additati) benpensanti, vernice e bombolette spray graffiavano i muri della Capitale, limitando però – come in un film già visto – circuito e raggio d’azione di idee ancora sotto valutazione probatoria. Infausto Kali-yuga.

Inconcludenza intellettuale? Mito incapacitante astratto, astoricizzato? Il laboratorio della comunità Ribelle pagò pegno alla prova dei fatti. Opposti estremismi tutt’altro che sopiti, capovolsero la clessidra riattualizzando l’incancellata stagione d’odio: interpellanza al Governo (proposta Pds, cofirmata Verdi, Rete, Rifondazione Comunista), petizioni per la chiusura dei ‘covi degli squadristi’, accuse di apologia di fascismo. La diffida degli inquirenti dall’affittare teatri per concerti ed assemblee. Assalti e aggressioni (l’iniziazione il 4 Ottobre 1991, “Scontri all’Università tra Autonomi e destra. Esplosa la tensione tra Legione Universitaria ed estrema sinistra”, titolò L’Unità). Fermi, perquisizioni e denunce. Camerati feriti e compagni in ospedale a giorni alterni. Sul finire, arrivò pure la puntualità dei botti, mica roba da Capodanno: la deflagrazione notturna di un ordigno nelle sede al Prenestino (“le vostre bombe non fermano le nostre lotte”) e gli attentati incendiari sull’uscio di casa (come ai Mattei nel pluriomicida rogo di Primavalle) cambiarono in corsa dinamiche e prospettiva. Il ritorno nella putrida fogna s’era impossessato del nobile ‘passaggio al bosco’, intercettata la strumentalizzazione mediatica dello spauracchio rasato, naturalizzato Naziskin. Con le violente notti infuocate di Rostock, la stella di David spuntò sulle serrande di alcuni negozi di commercianti ebrei romani e la polveriera tedesca dell’Est riunificato prestò il fianco agli euroscettici per gridare alla cupa trama, un rigurgito internazionale sotto mentite spoglie. Tra tritolo di mafia (in odore di Stato), ‘grembiulini’ sporchi, mazzette e appalti truccati, inutile smentire: “Antisemitismo, Meridiano Zero: non è opera nostra, si tratta di un episodio stupido e provocatorio che condanniamo. E’ stata un’azione becera ma non siamo solidali con l’ideologia sionista che, come ha sostenuto anche l’ONU, è razzista e lesiva dei diritti della dignità umana”. E poi: “Raduno Naziskin, Meridiano Zero: non c’entriamo nulla. Intendiamo tutelare immagine e diritti, in sede legale, ove si dovessero associare il fenomeno dei naziskin o episodi di intolleranza razziale con l’associazione culturale Meridiano Zero”. Inutile pure una conferenza stampa sotto Montecitorio, trasmessa dalla libera voce di Radio Radicale: “Ho una tessera socio-sanitaria per nome e un codice fiscale per cognome”. Stretto come un cappio, il cerchio s’era praticamente chiuso. Asfittico, l’agonizzante progetto dei tecnorivoltosi fallì sul nascere. Il collaudato teorema del mostro prevalse sull’insurrezione al turpe appiattimento. Solo diciannove mesi dopo la frontista fusione, il de profundis suonò a lutto il 28 Aprile 1993, a ridosso dell’Operazione Runa, una manciata di giorni prima il tiro (Lex) Mancino. Autoscioglimento. “Siamo riusciti a superare quella logica neofascista, che comunque abbiamo rappresentato, e di questo siamo fieri, ma che oltre ad un patrimonio indissolubile, rappresenta anche un ostacolo per garantire una continuità con il futuro”. Scivolando sull’ostacolo, il peccato originale calò giù il sipario: fine dei discorsi e libri in saldo, svenduti sulla disordinata bancarella di un robivècchi. Usate come nuove, pagine di (appena) venticinque anni fa…

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