La scomparsa del senso di comunità ha trasformato la ricerca dell’identità personale in un viaggio solitario. Senza nessuno a porre limiti etici, le giovani menti diventano fin troppo manipolabili, fino al punto di radicalizzarsi nel terrorismo votato al martirio.
La conversazione dello junghiano Luigi Zoja con il giornalista italo-algerino Omar Bellicini tenta di far luce sulla nascita tra le nuove generazioni delle cellule Jihadiiste al servizio dell’Isis. Fenomeno che negli ultimi anni sta seminando terrore e morte in Medio Oriente e in Europa.
Nel libro dal titolo Nella mente di un terrorista, pubblicato da Einaudi nella collana Le Vele, l’argomento viene affrontato usando i concetti di nevrosi, archetipo e cupio dissolvi. Zoja è come se portasse sul suo lettino da psicanalista un giovane terrorista, per comprendere senza giustificare, le ragioni che lo spingono a radicalizzarsi.
La mente del terrorista islamico
L’analisi parte dagli elementi ricorrenti tra i militanti dell’Isis, che siano gli ex membri del partito di Saddam, il Baath, o i giovani di seconda e terza generazione. In mancanza di una integrazione sociale compiuta, trovano nel radicalismo la riposta alla loro ossessiva ricerca di identità. Soprattutto i più giovani, perché in età evolutiva i messaggi della propaganda hanno maggiore possibilità di successo. Perché il mito dell’eroe è un archetipo che ha grande presa in una società antieroica come quella occidentale.
La disponibilità al martirio come estremo gesto di eroismo è legato al sentimento di ‘cupio dissolvi’ giovanile, l’istinto di morte insito nella natura umana, che in altri casi può portare all’uso di doghe o alla ricerca del rischio. Ma che nel caso dei terroristi trova sfogo nella seduzione della propaganda. Specie se la figura del padre inteso in senso psicanalitico, ovvero colui che pone dei limiti, si dissolve come il concetto di comunità. Ipotesi confermate – spiega Bellicini – dai Kouachi dell’attentato a ‘Charlie Hebdo’, gli Abdeslam degli attacchi di Parigi e i Tsarnaev dell’attentato di Boston. La società dei fratelli è la comunità orizzontale in cui trovare la complicità di un coetaneo per vivere un folle atto di eroismo.
Proiezione e nuove tecnologie
Anche le nuove tecnologie hanno colpe pesanti in questo percorso di smarrimento. Secondo una ricerca di Harvard, condotta su un campione di 16 mila persone, chi ha molti rapporti interpersonali usando le recenti tecnologie di comunicazione ha meno rapporti umani diretti. Un comportamento che nel tempo indebolisce le facoltà intellettuali, inibendo il filtro corretto delle notizie. Così la risposta morale ad una propaganda orribile come quella dell’Isis si indebolisce.
Ma la spiegazione junghiana di Bellicini ruota principalmente attorno al concetto di proiezione: negare il negativo che è dentro di noi proiettandolo su un altro individuo visto come diverso. La risposta a questa tendenza disumanizzante sta nell’integrazione, nel senso di appartenenza ad un comunità in cui ci si riconosce. Invece con i social network l’immigrato crea una realtà parallela nella quale resta connesso a quella di provenienza, vivendo in una sorta di bolla. Allora la distanza di costumi e di lingua incarna l’ombra che gli appartiene e che cerca di gettare sull’altro.
Ma Zoja rovescia il discorso. La proiezione avviene anche in chi sta dall’altra parte e quindi nella società cosiddetta civile. E quando la nevrosi diventa collettiva ci si dimentica, ad esempio, che in Italia non ci sono vittime del terrorismo islamico. Mentre nel 2012, secondo l’Agenzia europea per l’Ambiente, il numero di decessi per l’inquinamento atmosferico ha superato le 83.000 unità.
Eppure ci si preoccupa di più del terrorismo islamico perché rappresenta il pericolo più grande per l’equilibrio psichico del cittadino comune. Equilibrio che può essere ripristinato, – concludono gli autori – solo dalla cultura e dalla consapevolezza.
Michele Lamonaca