Al pari di Karl Brandt, Carl Clauberg, Host Schumann (gli ultimi due dediti a sperimentare sulle donne detenute nei lager tecniche di sterilizzazione femminile), Eduard Wirths (che studiava gli sviluppi del cancro direttamente sui deportati) e Carl Peter Vaerne (il quale sperimentava sui reclusi alla ricerca di una pretesa cura per l’omosessualità), Mengele era un medico- ed antropologo– che realizzò una gran quantità di esperimenti sulle innocenti vittime della Shoah, concentrandosi in particolar modo sui bambini.
Fine ultimo dei suoi esperimenti era preservare per sempre la “razza ariana“ (da lui riconosciuta, assieme ad altre presunte cinque razze umane, nella sua tesi di laurea, sulla base di differenze mandibolari) mediante l’identificazione ed appropriazione dei segreti dell’ereditarietà del patrimonio genetico. Per fare questo, sulle orme del suo maestro, il biologo Otmar Freiherr von Verschuer, che li aveva studiati a lungo, durante il suo servizio ad Auschwitz- Birkenau decise di eleggere a sue cavie i gemelli monozigoti.
In un primo momento dovette accontentarsi di studiare i gemelli del campo rom di Auschwitz, che lì risiedevano con le loro famiglie. Per loro realizzò il Kindergarten, dove poteva osservarli mentre giocavano e dove compì i primi esperimenti. Molti dei bambini oggetto del suo studio iniziarono ad essere aggrediti da una cancrena localizzata sul viso, che Mengele subito identificò come una malattia “razziale”, segno intangibile della esistenza di diverse specie umane; in realtà, essa era dovuta alle pessime condizioni alimentari dei lager. Ad ogni modo, Mengele non curò nessuno dei piccoli ammalati: studiò il decorso della malattia e, quando i bambini giungevano allo stremo, ordinava che venissero portati nelle camere a gas.
Successivamente, il dottor Mengele avviò un “programma di ricerca” ben più strutturato.
Al grido di “Zwillinge heraus!“ (“Fuori i gemelli!“), il medico- anche detto “Angelo Bianco” a causa del soprabito bianco che indossava, in forte contrasto con le uniformi dei soldati nazisti- selezionò almeno tremila gemelli, normalmente strappandoli ai genitori. In caso fossero appena nati, però, in qualche occasione si permise alla madre di seguirli.
Talvolta, la “fama” precedeva Mengele, cosicché le madri, consce delle sperimentazioni che il medico nazista avrebbe effettuato sui loro figli, nascondevano il fatto che fossero gemelli, tenendoli con sé; erano ignare, però, del fatto che questo spesso significava condurli ad una repentina morte nelle camere a gas. In altri casi, invece, le mamme, nel disperato tentativo di ingraziarselo, definivano Mengele uno “zio“.
I “bambini di Mengele” (come li chiamavano i soldati nazisti, dato che non era infrequente incontrare il medico in giro per il lager in compagnia di alcuni di loro) vivevano in una baracca loro riservata, la numero 10. Qui, le condizioni di vita e le razioni di cibo erano migliori rispetto agli standard del campo, avendo Mengele premura che i bambini rimanessero in buone condizioni di salute; non venivano nemmeno loro rasati immediatamente i capelli, né erano costretti ad indossare l’uniforme; potevano inoltre giocare e non erano obbligati a lavorare. I piccoli prigionieri, però, ai suoi occhi, altro non erano che cavie da laboratorio.
Sui bambini veniva tatuato un numero identificativo che seguiva una sequenza particolare; quotidianamente i piccoli venivano minuziosamente esaminati e misurati, annotando finanche il minimo dettaglio. Veniva prelevato loro del sangue o, ancora, venivano iniettati loro farmaci per esaminare e confrontare le reazioni di un gemello rispetto all’altro; le iniezioni causavano di frequente dolori ed infezioni. Spesso, poi, venivano iniettati virus per esaminare il decorso di malattie, oppure effettuate trasfusioni da un fratello all’altro.
Mengele si avvaleva della collaborazione di un medico patologo ebreo deportato ad Auschwitz, Miklos Nyiszli, il quale, nel suo libro “Sono stato l’assistente del dottor Mengele. Memorie di un medico internato ad Auschwitz“, ricordava a riguardo:
(…) Dal momento che la dissezione e l’osservazione dei diversi organi deve essere eseguita nello stesso tempo, occorre che la morte dei gemelli si verifichi nel medesimo momento. E nella baracca sperimentale del kappa-zeta di Auschwitz, campo B II d, la morte simultanea di gemelli avviene regolarmente. Ci pensa il dottor Mengele a privarli della vita.
(…) Per questo sono indirizzati a destra, per finire dopo nella baracca buona . Per questo temporaneamente godono di un buon vitto e possono lavarsi, allo scopo, cioè, che qualcuno non si ammali e possa morire prima dell’altro. Possono morire, certo, ma in buona salute, e simultaneamente!”.
Campioni di organi o tessuti– non sempre, peraltro, asportati da pazienti già morti– venivano talvolta inviati a Berlino, dove venivano effettuati analisi più approfondite nella speranza di individuare differenze tra il sangue degli ariani e quello dei non ariani, che accertassero definitivamente le differenze razziali.
Un altro campo su cui si concentrò ampiamente Mengele fu quello relativo all’eterocromia (fenomeno patologico per cui l’iride di un occhio scolorisce fino a diventare più chiara dell’altra), al fine di far diventare gli occhi delle sfortunate cavie azzurri, secondo lo standard ariano. Per raggiungere tale obiettivo, iniettava metilene blu direttamente nell’iride, così causando nei bambini null’altro che atroci dolori e la cecità.
Non mancarono esperimenti ancor più aberranti: è, ad esempio, il caso di due gemelli cuciti assieme per la schiena per studiarne le reazioni, poi soffocati dai genitori (cui furono restituiti perché non avevano, evidentemente, soddisfatto le aspettative di Mengele) perché ridotti in condizioni terribili. Inoltre, la selezione di Mengele coinvolgeva anche deportati affetti da nanismo o da altre patologie ereditarie.
Dei tremila bambini seviziati da Mengele, appena duecento sopravvissero; tra questi, molti (come Andra e Tatiana Bucci, erroneamente scambiate per gemelle) hanno in questi anni lottato perché la memoria dell’atrocità nazista venisse preservata, pur non facendo mistero del fatto che la paura e l’orrore non li abbandoneranno mai.
Nell’ambito di queste testimonianze, toccante spunto di riflessione è offerto da Eva Mozes Kor, internata con la gemella Miriam Mozes, che, a distanza di molti anni, è riuscita a rispondere alle violenze sofferte- pur non trovando, in questo, l’appoggio di alcuni altri sopravvissuti- col perdono:
http://https://www.youtube.com/watch?v=gdgPAetNY5U
Mengele non pagò mai per quello che aveva fatto: morì in Sudamerica, dove- si vocifera- continuò per anni i suoi orribili esperimenti.
Lidia Fontanella