Nel nome del sé, del loro, del nostro. Sulla perdita d’identità nel Mar Mediterraneo.

Mediterraneo naufraghi identità

Dalla parte delle sirene e dei pirati

Il Mar Mediterraneo è il mare dove mio padre mi ha insegnato a nuotare.
Sulle coste della Calabria, in quelle lunghe giornate di infernale afa estiva, lì, trovavo sollievo.
Quel mare era bello. E illuminato dal sole bruciante, lo era pure di più.
Da bambina, nei giorni di alta marea, giocavo a buttarmi tra le onde. E quando ne uscivo, mi concedevo di pensare di rinascere sempre, ogni volta, di nuovo.
A quel tempo, non sapevo di essere nata dalla parte “giusta”, quella privilegiata, quella “delle favole”. A quel tempo, “dalla mia parte”, orizzonte voleva dire “sirene e pirati”. Non consideravo che, al di là delle sirene e dei pirati, potesse esserci anche un’altra parte.
Da bambina ignoravo tutto questo. Ignoravo quanto dall’altra parte, quello stesso mare potesse non somigliare al mio, che quelle stesse acque che tanto amavo nascondessero, in realtà, una scena del crimine.
Quel mare era un mare di orrori e io questo, a quel tempo, non lo sapevo.

I dati

Tracciando un bilancio dell’anno appena concluso, emerge chiaramente il notevole incremento di migrazioni a cui abbiamo assistito. I dati statistici, forniti dal Viminale, mostrano il bilancio del 2023 che conta 157.652 persone migrate a fronte delle 105.131 arrivate nel 2022.
A queste spietate traversate, che partono dalla costa libica per arrivare a quella italiana, non è scontato sopravvivere. Negli ultimi 10 anni si contano, ad oggi, più di 28.000 morti. E di questi morti, spesso, non si conosce neanche il nome.
Cristina Cattaneo, professoressa ordinaria di Medicina Legale presso l’Università degli Studi di Milano e direttrice del Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense (LABANOF), da anni, con grande cura e scrupolo, si occupa proprio di identificare le persone coinvolte in questi disumani naufragi. A partire dall’esperienza del suo laboratorio, che dal 1995 si impegna ogni giorno nello studio e nell’identificazione di resti umani con l’obiettivo di restituire una storia, un’identità e una dignità alle persone coinvolte in tragedie di varia natura, è quindi la Cattaneo, in Naufraghi senza volto, ad offrirci una tra le più preziose testimonianze a riguardo.

Rimanere “Naufraghi senza volto” nel Mar Mediterraneo

Nel racconto di uno dei primissimi confronti riportati nel libro, la questione dell’identificazione dei migranti dispersi sulla rotta mediterranea (e quindi di quelli mai effettivamente giunti in terra italiana) emerge da subito. La Cattaneo infatti racconta:

«La scheda per identificare i cadaveri sconosciuti (“RISC” ndr.) era in corso di rodaggio […] Alla fine […] si finì per parlare di alcuni corpi rinvenuti in Sicilia e del fenomeno dei migranti morti. […] “Ma quelli che muoiono inequivocabilmente durante la traversata o che sono trovati in acqua e vengono certamente dai barconi si inseriscono nella RISC?” Silenzio. Mi resi conto che nessuno di noi aveva ancora pensato seriamente a questa evenienza. Riprendemmo tutti a parlare nello stesso momento, dopo qualche secondo: chi diceva un “no” secco, chi “si”, chi sosteneva di no perché, se non sono italiani, non li avremmo mai potuti incrociare con le denunce di scomparsa, dal momento che queste si riferiscono solo a cittadini del nostro paese. E mentre parlavamo ci rendevamo conto che il problema era di un’enormità inimmaginabile».
(Naufraghi senza volto, Cristina Cattaneo)

Il problema dell’identificazione di queste persone al momento della loro sepoltura si dimostrò essere allora un fatto reale, perché “non essere morti in terra italiana”, per le procedure amministrative che regolamentano le pratiche che seguono il decesso, parrebbe costituire non poche complicazioni.

La negazione dell’identità

Il bisogno di restituire un volto a queste persone, prima ancora che un’urgenza legale però dovrebbe costituire una necessità umana.

«L’esigenza di identificare i nostri morti è atavica; l’esigenza di poterli toccare, per accertarsi che davvero non siano più in vita, per poter dare loro una sepoltura, o almeno accudirli un’ultima volta. Fu così per gli uomini di Neanderthal, che iniziarono a seppellire i propri morti con corone di fiori, ed è ancora così per tutte le civiltà, in un modo o nell’altro».
(Naufraghi senza volto, Cristina Cattaneo)

Negare il diritto all’identità significa violare un diritto, prima di tutto, umano. Significa compiere un oltraggio nei confronti del soggetto, dei suoi cari e di tutto ciò che dovrebbe rientrare nella definizione di “civiltà”.
Ma perché, ad oggi, riconoscere un nome, concedere il diritto di identità a chi, per fuggire da guerre e torture, si avventura in questi lunghi viaggi della speranza dall’esito incerto, costituisce ancora un fatto su cui c’è bisogno di richiamare l’attenzione? In questa società che abitiamo e che ci piace chiamare “multietnica e multiculturale”, perché quella che dovrebbe essere, quantomeno, un’ovvietà non lo è affatto?

Nominare è far esistere

La resistenza che riscontriamo nel rapportarsi ad una qualsiasi alterità, trova corrispondenza nella reazione istintiva che tendiamo ad attivare quando ci troviamo a cospetto di qualcosa che percepiamo come minaccioso. E in questi termini, la figura dello straniero, nel suo essere Altro, rappresenterebbe un’elezione.

«Abbiamo bisogno di confini per esistere. Si può esistere senza avere un senso di identità? Senza radici e senza sentimento di appartenenza? […] Il bisogno di conservazione è strettamente connesso alla vertigine provocata dalla caduta del confine identitario. […] Il “protezionismo” economico diventa in questo caso sintomatico: […] si tratta di preservare la propria identità dal rischio della sua alterazione provocata dalla concorrenza invasiva dell’Altro. […] Di fronte al pericolo dell’alterazione dell’identità, l’apparato psichico reagisce, infatti, rafforzando la sua tendenza omeostatica: ridurre le tensioni al più basso livello possibile, evacuare, scaricare l’eccitazione ingovernabile, rimuovere l’estraneo, l’eterogeneo, lo straniero».
(Confini, Massimo Recalcati in A pugni chiusi)

Nominare la realtà, la fa esistere. E ignorare il problema della penuria di attenzione che dedichiamo alla questione dell’identificazione di questi corpi risulta solo l’ultima spia di una vera e propria dinamica di spersonalizzazione.

Per un confine “poroso”

Il problema allora è primario. Antecede la fase di rinvenimento dei cadaveri. Non saper riconoscere adeguatamente i migranti né da vivi né da morti, rivela una tendenza alla rimozione, una difesa che adottiamo, sostanzialmente, per paura.
Ogni volta che scegliamo di non nominare qualcuno, decidiamo di cancellarlo, pensando così di proteggere, in primo luogo, la nostra stessa identità.

«Se la vita non sa scavalcare il regime ristretto della propria identità, se non sa muoversi dal proprio bisogno di appartenenza verso una nuova contaminazione con l’alterità dell’Altro, fatalmente stagna, appassisce, non può che ripetere sterilmente se stessa. […] La vita può conservarsi solo espandendosi, oltrepassando il confine che è stato necessario alla sua istituzione. […] La vita che si ammala è quella che resta troppo attaccata a se stessa, che resta vittima della tendenza omeostatica alla propria conservazione, è la vita che ingessa, cementifica, rafforza unilateralmente il proprio confine narcisistico. […] Se il confine serve a rendere la vita propria, questo confine, per non diventare soffocante, deve, come si esprimeva Bion, divenire “poroso”, permeabile, luogo di transito».
(Confini, Massimo Recalcati in A pugni chiusi)

Negare un nome, negare un’identità vuol dire negarsi la vita.
Il valore che non diamo a chi non accogliamo è lo stesso valore di cui priviamo per primi noi stessi: è il valore della vita umana.
Comprendere questo è primario. Comprendere questo è il primo vero passo da fare per permettere alla vita di espandersi.

 

Giulia Guastalegname

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