Migliaia di medici con nazionalità diverse si calano in questa realtà per mettersi a disposizione del prossimo, chiunque esso sia.
Probabilmente l’idea comune del medico ha assunto una figura standard nella mente delle persone. Indossare il camice vuol dire avere una formazione decennale alle spalle, come minimo; di conseguenza risulta scontato affidarsi a loro. La gente intende questo lavoro come una professione “comoda”, per il fatto di avere un ufficio, spesso una segretaria e un’aspettativa che negli ospedali italiani spesso supera in media i 4 mesi…
Ovvio, adesso si sta generalizzando assumendo un tono superficiale, avremo pur lunghi mesi davanti per una visita specialistica, ma per lo meno il servizio sanitario nazionale offre, in base alla gravità e all’età del paziente, prestazioni gratuite.
Ma ora abbandoniamo l’immagine mentale che vi sarete fatti del vostro medico o dell’ospedale della vostra città.
Siamo a Kabul, in Afghanistan, precisamente nell’ospedale di Emergency, dove ogni giorno vengono accolti numerosi feriti di guerra. I media ne parlano meno ma il conflitto è ancora storia attuale; Solitamente le ferite riportate da pazienti sono di scheggia, proiettile o dall’impatto con una mina. Queste armi sono concepite per mutilare e non per uccidere, senza distinzione di età o sesso, se ne vieni colpito ne rimarrai segnato per il resto dei tuoi giorni.
In questa struttura, oltre il personale sanitario e i degenti, vi sono storie incredibili raccontate dai parenti seduti accanto il letto del ricovero. A loro volta parlano di persone care che non ci sono più, figli morti sotto le macerie di una casa, cugini persi per l’esplosione di un’autobomba e via scorrendo le innumerevoli disgrazie possibili in territorio di guerra. Ognuno di questi racconta con lo sguardo che mette a nudo quel filo di rassegnazione che copre quello della rabbia, ma che nonostante tutto conserva la speranza.
E’ proprio da quest’ultima che i dottori traggono infinita volontà a salvare delle vite. Con il loro operato, alimentano le speranze di limitare meno possibile il proseguimento di una vita, se così si può definire, “normale”.
Uno degli ultimi arrivati é un anziano “minato”. Ha perso completamente il piede e i medici si consultano, dopo aver chiesto l’autorizzazione alla famiglia, per decidere se amputare la gamba sopra o sotto il ginocchio; nel primo caso il paziente ha buone probabilità di tornare a camminare, nel secondo invece, le speranze che torni a camminare sono praticamente nulle. Pochi istanti dopo la vittima e i chirurghi si trasferiscono in sala operatoria, ma la sensazione è che tutto non sia andato come previsto. L’operazione doveva essere idealmente dopo un’ora, ma di ore ne sono passate 4; la prima a lasciare la stanza dell’operazione è una dottoressa, visibilmente affaticata e triste, in breve spiega che hanno fatto di tutto per fissare l’osso della tibia al femore, ma le ferite riportate giungevano sino al gluteo in modo profondo, di conseguenza, dopo un lungo sospiro, la donna china il volto verso il pavimento, e con voce strozzata, spiega in poche parole che hanno dovuto amputare la gamba sino all’altezza dell’inguine.
L’atmosfera si fa pesante e il medico abbandona in silenzio il corridoio.
In questo scenario, i fortunati sono quelli a cui è stato possibile installare protesi agli arti mutilati. Altri perdono la vista o l’udito, ed in questi casi le equipe di medici e quella dei familiari non possono fare altro, se non nutrire un sordo rancore di quanto siano vigliacche le armi in questione.
Ogni giorno ci si trova di fronte ad una evenienza diversa, di fatto il medico per l’importanza del suo lavoro, deve cercare il più possibile il distacco emotivo, ma essendo essere umani, è inevitabile che talvolta la soglia di distanza diminuisca, facendo diventare alcune situazioni davvero ostiche da gestire mentalmente.
I medici di cui parliamo, hanno fatto una scelta di vita che paradossalmente viene poco riconosciuta, forse perché i gesti umili nella società di oggi sono destinati ad avere poca voce o forse perché un po’ tutti pensiamo a noi stessi.
Tratto da “Le Iene”, Dentro un’ospedale di guerra, di Marco Maisano