In Svizzera un uomo che perde la moglie ha diritto per legge ad una pensione se ha a carico figli minorenni. Al compimento del diciottesimo anno di età di questi ultimi, il sostentamento economico decade. Diversamente accade quando vedova è la donna: il denaro le sarebbe assicurato per il resto della vita.
Per la Corte europea dei diritti umani, che ha analizzato il caso di Max Peler, di ingiustizia si tratta.
Essa si è espressa chiaramente: questa legge discrimina gli uomini vedovi perciò le disparità di trattamento dovranno essere eliminate
Ad aver sostenuto l’esistenza di una discriminazione all’interno della legge Svizzera è stato Max Peler, oggi 69enne. Egli, residente nel cantone dell’Appenzello, perse la moglie a causa di un incidente stradale a 41 anni. Per occuparsi delle figlie di soli 2 e 4 anni decise di lasciare il lavoro. Aveva pieno diritto al sostegno statale e lo ottenne fino al 2010. Anno in cui rimase completamente privo di entrate. A 57 anni, inattivo da tempo, si trovava fuori dal mercato del lavoro in cui lo Stato lo spingeva a rientrare.
La Cedu non ha accettato alcuna argomentazione svizzera in merito: nulla giustifica più un trattamento diverso per uomini e donne, a prescindere che si avvantaggi l’una o l’altra parte.
“Caso di discriminazione insolito” così è stato definito successivamente l’evento da alcune testate giornalistiche italiane. Nei fatti si tratta di discriminazione nei confronti degli uomini, ma di atipico vi è solo il superficiale.
È sufficiente una prima riflessione per comprendere che la radice di tale penalizzazione sta nella questione dei ruoli, o meglio al ruolo che sempre si è attribuito alla donna di madre, custode e dunque figura costantemente disposta alla rinuncia, specialmente lavorativa.
Nell’ardua operazione per la riduzione del divario di genere si è posta, nel tempo, particolare attenzione al rimuovere dalla figura femminile lo stigma per cui fosse destinata alla sola vita domestica, si sono realizzate misure e percorsi per rendere effettiva la sua partecipazione a qualsiasi ambito lavorativo. Si è sempre guardato però, ad un unico lato della bilancia sociale per poterla riequilibrare.
Ad oggi un disequilibrio permane, a causa dell’unilateralità di visione adottata fin’ora si è rimosso senza creare. Si è giustamente eliminata la concezione d’obbligo per cui la donna deve prendersi cura della casa senza realizzare una reale possibilità per l’uomo di sostituirla in tali compiti.
Perché l’uomo che non lavora è ancora per l’opinione pubblica più diffusa, un inetto.
Tali dinamiche si allargano negli spazi lavorativi in cui ancora permangono mestieri nei quali uno dei due sessi è predominante.
Non è un caso che in Europa meno del 20% tra parrucchieri ed estetisti siano uomini, oppure che nell’industria metalmeccanica sia solo al 21.3% la presenza femminile.
Sono costrutti sociali radicati a spingere ambo i sessi verso direzioni che risultino maggiormente “appropriate”. La mascolinità tossica non risalta le potenzialità dell’uomo, le riduce.
Se parità di genere non è sinonimo di omologazione, indispensabile resta sì, riconoscere le differenze, quanto intendere le stesse come portato di varietà.
La CEDU ha identificato attraverso la circostanza di Peler, i reali, ampi confini del concetto di parità ed è proprio in tale vastità che vive la pluralità generatrice di ricchezza.
Solo all’interno di questo perimetro la bilancia può riassestarsi.