Maurizio Belpietro, con quel sorriso un po’ così, direttore de “La Verità” e di Panorama, è stato dal 2009 al 2016 direttore di Libero. Anni d’oro durante i quali le vendite di Libero hanno registrato un tracollo di vendite pari a -68%: il più pesante collasso fra le principali testate italiane.
In compenso, in quegli stessi anni, sotto la fulgida guida di Belpietro, Libero ha incassato – ogni anno – dai 3 ai 4 milioni di euro di finanziamenti pubblici. Cioè mentre migliaia di aziende italiane chiudevano i battenti e le famiglie finivano in mezzo alla strada per le tasse da pagare e il crollo delle vendite, Maurizio Belpietro continuava beatamente a percepire il suo lauto stipendio anche grazie alle tasse pagate dagli italiani, e nonostante il suo disastroso lavoro.
Un disastro che ha sempre cercato di arginare con articoli e titoli scandalistici, inventandosi ad esempio un imminente attentato a Gianfranco Fini (bufala per la quale sarà condannato per procurato allarme a pagare 15mila euro di ammenda) o il famigerato “Bastardi islamici” e robe così. Titoli disperati per supplicare la gente ad acquistare il suo giornale, o almeno a parlarne.
Ma gli italiani a Maurizio Belpietro non hanno contribuito a pagare solo lo stipendio. Ma pure la scorta. Sì perché Belpietro ha pure la scorta.
Un po’ come Sallusti, Bruno Vespa, Vittorio Feltri e tanti altri giornalisti e direttori. Un po’ come Saviano. Solo che Saviano la scorta l’ha avuta quando non era un cazz* di nessuno. L’ha avuta perché, da semplice cronista di provincia, ha scritto un libro sulla mafia. Un libro tra migliaia di libri che trattano lo stesso argomento. E che lui pensava avrebbe fatto la stessa fine: lo avrebbero comprato l’amico, il cugino, qualche addetto ai lavori. Qualche appassionato del genere.
E invece cominciano a comprarlo centinaia di persone. Poi miglia, decine di migliaia, centinaia di migliaia, milioni. Lettori che scelgono di acquistarlo, in totale libertà, senza costrizioni, senza pagarlo “involontariamente” attraverso le tasse. Nessuno li costringe a scrivere recensioni entusiastiche e a invogliare altri lettori ad acquistarlo. Ne nasce un film. Ed è un altro successo. Tutto non programmato, tutto non voluto o pianificato.
Saviano finisce in tv, e le tv tornano a parlare di Camorra. Anzi di Casalesi. Tutti parlano degli affari dei clan, dopo tanto silenzio. Quel silenzio che tanto fa comodo alle cosche, e che Saviano infrange. Così qualcuno si incazza, e per evitare che Saviano faccia la fine di tanti altri giornalisti che anche in questi mesi vengono ammazzati ovunque, lo mette sotto scorta.
Saviano sa anche parlare, sa raccontare. Quando lui parla di mafia in tv milioni di italiani lo ascoltano. Ma tutto questo diventa una colpa. Sopratutto perché Saviano, conoscendo da vicino i danni che le mafie causano al Paese, prova a far capire al Paese che è quella la priorità da combattere. Non l’immigrato. Ma il mafioso. Non l’immigrato che paga 7 miliardi di Irpef e 11 miliardi di contributi pensionistici. Ma la Mafia che fattura 150 miliardi, che fa lievitare i prezzi degli appalti, che impone il pizzo, che traffica droga.
Così succede che un giornalista sotto scorta come Maurizio Belpietro, che invece di vendere milioni di copie di libri, perde milioni di copie di un giornale peraltro finanziato con i soldi dei cittadini, si mette a fare i conti in tasca a un altro giornalista sotto scorta colpevole di aver fatto successo con le proprie sole forze.
Chiamandolo “sedicente martire”. Per provare così a scatenare nei suoi confronti l’odio da invidia, da sospetto che in fondo quei soldi li abbia ottenuti ingiustamente, o immoralmente.
Perché accanto ai titoli “click-bait” (cioè fatti per attirare click) bisognerebbe aggiungere la categoria dei titoli “hate-bait”, fatti a posta per fomentare livore, invidia, odio.