“Come sarà l’Italia di domani?”. L’interrogativo è ormai una costante di questa Fase 2: in pubblico e in privato, esso suscita il timore, le speranze e l’immaginazione degli Italiani. Abbiamo provato ad affrontarlo insieme a Maura Gancitano, filosofa ideatrice, con Andrea Colamedici, di Tlon, scuola di filosofia, casa editrice, libreria-teatro e agenzia d’eventi.
Già da prima dell’inizio della pandemia, quello di Maura Gancitano era un volto della divulgazione filosofica molto amato. La sua riflessione, rivolta alla fioritura personale, all’educazione di genere, all’immaginazione e al narrare, da anni contribuisce ad avvicinare le persone all’esercizio del pensiero critico. Non senza scontri: le sue prese di posizione le sono costate ripetutamente minacce e insulti, in particolare sui social network. A questi la filosofa ha risposto con un ancor più deciso impegno nel promuovere la costruzione di un dibattito pubblico civile, responsabile e informato. Tanto in rete quanto nello spazio pubblico fisico che viviamo.
L’Italia di domani – quella successiva al COVID-19 – secondo Maura Gancitano potrà e dovrà essere migliore. Ma solo a condizione che ci si impegni a promuovere l’educazione e il senso di comunità, facendo tesoro dello strumento indispensabile costituito dalla filosofia. Senza risparmiarsi, peraltro, nell’affrontare quelle criticità che affliggono il nostro Paese da tempo.
All’inizio del lockdown proliferava una certa retorica, secondo la quale dopo l’epidemia avremmo tutti rivisto il nostro modo di pensare e vivere, diventando migliori. Oggi, due mesi e mezzo dopo, eventi come quelli legati al ritorno di Silvia Romano in Italia rendono evidente come quell’idea fosse quantomeno ingenua. Il caso della cooperante internazionale – della quale Maura Gancitano con Tlon ha preso le difese, ricevendo migliaia di insulti e minacce via social – mi suggerisce una prima domanda. Ovvero: oggi che il discorso pubblico, soprattutto sulla scena virtuale, assume sempre più i tratti di una bolgia infernale, come può intervenire il pensiero critico? Come si può plasmare un discorso pubblico in cui le parole abbiano un peso, in cui se ne sia responsabili?
Purtroppo, è vero, questa situazione non ci sta rendendo migliori. Ce lo siamo augurati allorché ci siamo trovati in una situazione d’eccezione, ma non ci sono stati miglioramenti. Questo è veramente triste. Anche perché, secondo gli scienziati, questa potrebbe essere solo la prima delle emergenze globali che ci troveremo ad affrontare nei prossimi anni. E il problema nel farvi fronte non sono soltanto le tecnologie o le culture, ma la mancanza diffusa di etica. Nel dibattito pubblico italiano – come emerso dal caso di Silvia Romano – questa mancanza si intreccia a una tenace ignoranza su due livelli: giuridico e filosofico.
«Anzitutto, il livello giuridico. In questi anni, purtroppo, è passata sempre di più l’idea che i principi democratici siano i principi di una sola parte politica».
Si tratta, invece, di principi condivisi: principi che tutti dovremmo rispettare. Esistono certi illeciti e certi reati. Affermare che di una persona si può dire qualsiasi cosa, o che si può augurarle uno stupro, significa affermare il falso. Significa negare l’esistenza di leggi che esistono, che vanno conosciute e rispettate. Nel momento in cui i giornalisti fanno certe affermazioni, dovrebbe esserci un controllo da parte dell’Ordine; se si tratta di parlamentari, da parte delle istituzioni. Questo controllo purtroppo non c’è. Di conseguenza, in Italia una bella fetta della popolazione pensa di avere il diritto di dire qualsiasi cosa. Ignorando che si può esprimere la propria opinione, ma questa non può essere minaccia o insulto e deve essere provata dai fatti.
«La questione della prova dei fatti e del vaglio critico ci porta, naturalmente, al secondo livello, quello filosofico».
Ho provato sulla mia pelle, soprattutto in questi mesi, quanto stia diventando difficile creare un dialogo. Ogni volta che ho provato a invitare alla verifica delle notizie, a cercare fonti attendibili e ad approfondire, sono stata travolta da messaggi di odio. Questo accade perché la comunicazione è diventata in larga parte manipolazione. Le persone sono spinte a credere ciecamente solo a una certa narrazione e quando qualcuno invita all’attenzione e all’approfondimento la risposta è la violenza. Questa risposta è proprio la prova che non c’è una riflessione critica a monte. Che non ci si sta ponendo delle domande, ma che si è orientati solo da dogmi, pregiudizi e bias cognitivi.
Certamente noi dobbiamo esprimere il nostro giudizio, soprattutto sulle questioni di interesse collettivo. Però il giudizio è una facoltà che va coltivata. Esso va espresso solo se si è in grado di formulare argomenti e capire cosa si sa veramente. Ora, le persone che portano avanti campagne di odio sui social hanno – secondo le rilevazioni statistiche – in media più di 55 anni. Queste persone non hanno ricevuto un’educazione logico-razionale: si trovano a utilizzare un linguaggio sdoganato dalla politica quasi senza rendersi conto della gravità delle proprie affermazioni. Non si rendono conto che comportarsi così è una mancanza di responsabilità e di educazione civica.
«Per far fronte a questa situazione, che è davvero molto grave, bisogna allora agire su entrambi i livelli».
Anzitutto, creando strumenti per arginare a livello giuridico certi fenomeni. Un esempio – non certo l’unico – il progetto per il controllo della violenza sul web #OdiareTiCosta, che ho contribuito a fondare. In secondo luogo, promuovendo l’educazione filosofica. Io sono fermamente convinta che in Italia, insieme all’Italiano e alla Matematica, fin dall’infanzia vada insegnata la Logica. Bisognerebbe insegnare a riconoscere buoni argomenti e fallacie e a verificare le notizie. Perché, altrimenti, siamo tutti facili vittime di manipolazione. Non pensiamo: cerchiamo solo di confermare i nostri bias cognitivi ed esprimiamo posizioni – anche con violenza – su realtà e situazioni che non conosciamo davvero.
L’idea, quindi, che Maura Gancitano promuove – mi sembra di capire – è quella di un sapere sul quale l’agire possa saldamente fondarsi. Un agire che è strutturalmente e inevitabilmente dialogico e collettivo, allorché si tratta di ripensare e ricostruire il futuro del Paese. Ricordo una sua diretta del 2019, nella quale affermava l’urgenza di proporre un modello democratico diverso rispetto a quello – per molti versi in crisi – vigente. Un modello nel quale i cittadini riuscissero a fare rete creando micro-realtà virtuose che si contrapponessero al clima di violenza e sospetto sempre più diffuso. Secondo Lei, l’emergenza che stiamo vivendo offre opportunità per lo sviluppo di questo modello? E in che modo i cittadini possono impegnarsi per coltivarlo?
L’impegno dei cittadini passa, secondo me, anzitutto dai social network. Come abbiamo constatato durante il lockdown, questi spazi rivestono un’importanza fondamentale. Occupano una porzione consistente del nostro tempo e costituiscono una dimensione rilevante – non importa se virtuale – dello spazio pubblico in cui ci muoviamo. Ora, il 90% delle persone sui social non scrive, non commenta. La maggioranza di queste persone non condivide la posizione di chi conduce campagne d’odio, ma non prende posizione per timore di uno scontro. Per questo l’odio sembra predominare. Bisogna assolutamente mettersi in gioco per contrastare questa tendenza.
Ad esempio, esistono in rete piccole comunità di persone che sistematicamente si impegnano ad abbassare nel complesso il volume di chi promuove odio e violenza. Questa azione di contrasto, che avviene postando messaggi di solidarietà e conforto, sembra molto piccola. Tuttavia, se diventa diffusa, diventa forte. Per questo, in questo momento, la forza sta nella creazione di comunità virtuali il più possibile virtuose e inclusive. Comunità basate su un’etica, su un riconoscimento democratico e su un impegno attivo nel contrastare l’azione di coloro che attaccano impunemente in massa.
Un altro modo è quello di porsi domande, approfondire le notizie e fare pressione nel proprio piccolo per una informazione più corretta, trasparente e veritiera. Non una informazione ottimistica a tutti i costi, affatto. Un’informazione che ci aiuti a pensare la complessità, a coltivare un pensiero che sappia tenerne conto. Perché questo è un momento complesso. Non possiamo pensare che la scelta sia a quale polo collocarci, semplicemente perché entrambi i poli, nella loro assoluta nettezza, sono un’illusione. Quello che possiamo fare da esseri pensanti è usare il nostro tempo per provare a capirci qualcosa. Studiare, approfondire, esercitare il pensiero critico. Non potendo studiare ogni cosa, scegliere un tema che ci appassioni. E poi, approfondendolo, metterlo in circolo, condividere la conoscenza, raccontare.
I social network, dunque, nella visione di Maura Gancitano possono essere una sorta di palestra per la cittadinanza attiva?
Sì. Lo spazio pubblico però – digitale e fisico – deve assolutamente ridiventare un vero spazio pubblico. Oggi viviamo uno spazio principalmente commerciale: quando ci ritroviamo in uno spazio condiviso, perlopiù è per ragioni di scambio, di commercio. Ci serve uno spazio di confronto, di dialogo, di incontro. Inoltre, dovrebbero moltiplicarsi le iniziative provenienti dal basso; iniziative che – è fondamentale – pretendano l’ascolto delle istituzioni. Le nostre istituzioni, purtroppo, sono vecchie e spesso non hanno sufficiente competenza, non sanno comprendere i problemi della vita quotidiana delle persone.
Anche in questo caso la vicenda di Silvia Romano presenta aspetti emblematici. C’è una relazione tra i discorsi di giornalisti e politici e le minacce ricevute dalla cooperante, le bottiglie lanciate contro la sua finestra. A livello europeo e internazionale, la ricerca accademica ha da tempo dimostrato la correlazione significativa tra discorso e crimine d’odio. Ad oggi, però, in Italia – nonostante le direttive dell’Unione Europea – non esiste una legge contro l’hate speech. Cercare di farla vorrebbe dire passare almeno un anno e mezzo a discuterne in Parlamento. Dove la maggior parte dei parlamentari è completamente impreparata sul tema. Così come, purtroppo, in relazione ad altri temi importanti.
Bisogna organizzarsi, secondo me, fare rete per riuscire a esprimere una voce che possa dire quello che c’è da dire e possa essere ascoltata. È un compito difficile, ingrato, faticoso, ma è un dovere non più rimandabile per chi si renda conto della situazione e non voglia più accettarla.
Qual è una speranza di Maura Gancitano rispetto all’Italia e al mondo che verranno dopo questa pandemia? E in che modo il pensiero filosofico potrebbe contribuire a realizzarla?
Una speranza tra tutte è che il nostro futuro sarà sostenibile. Sostenibile in senso economico, ambientale, ma anche dal punto di vista umano. Questo, ne sono convinta, è un momento di forte cambiamento di paradigma. Il rischio è essere tentati di tornare indietro, alla situazione di prima. Occorre, invece, rendersi conto che quel sistema era fragile e insostenibile: basta guardare come in poche settimane sia crollato tutto. Quei modelli produttivi non funzionano più, economicamente. E, soprattutto, quel modello del lavoro – lo sapevamo già da tempo – distrugge gli esseri umani psicologicamente, emotivamente, fisicamente e crea diseguaglianze insanabili. Anziché sperare di tornare indietro, quindi, dovremmo dare molto spazio alla teoria, al dialogo, all’innovazione e alla ricerca perché lì troveremo strategie per la sostenibilità. E avremo bisogno di creatività e immaginazione.
In questo contesto, la riflessione filosofica risulta fondamentale perché la filosofia insieme al pensiero logico-razionale esercita anche l’immaginazione. Per questo essa può costituire un ponte e un interlocutore tra le discipline messe in gioco dalla crisi nell’elaborare un nuovo paradigma di futuro. Un discorso solo tecnico-scientifico, infatti, non è sufficiente per comprendere e affrontare le sfide che ci attendono. Occorrono anche quelle discipline, prima tra tutte la filosofia, che riescono a rimettere al centro l’essere umano, il valore e il senso del suo agire.
Questa prospettiva stride fortemente con la pressoché completa assenza di esperti di cultura umanistica nelle task-force a supporto delle decisioni del Governo, non trova?
È vero. In questi mesi le istituzioni si sono trovate ad affrontare qualcosa per cui assolutamente non erano preparate. A un certo punto, però, dovrebbe diventare inevitabile porsi delle domande sul proprio modello. Ora, il modello secondo il quale sono state scelte le commissioni è un modello vecchio. Ciò è risultato chiaro, ad esempio, nella poco significativa presenza femminile, di cui si è ampiamente discusso. Altrettanto chiaro risulta nell’assenza degli esperti di cultura umanistica. Servirebbe – e, francamente, ho la sensazione che non si sia compreso appieno con quanta urgenza – un nuovo modello di governance. Quello che si sta facendo è cercare di porre rimedio solo ad alcuni problemi, invece, con un’attenzione quasi prevalente all’aspetto economico. Non si sta tenendo conto di fattori ugualmente importanti, di strutture che stanno collassando perché non funzionano più. Temo che faremo i conti nei prossimi anni con le conseguenze di queste scelte.
Secondo Maura Gancitano, quindi, quello che può provare a fare chi lavora con la filosofia è questo: dare voce a un’istanza profonda di cambiamento?
Sì. Quello che ci stiamo domandando in questi giorni è proprio come dare voce alle persone. Abbiamo fatto un esperimento in tal senso proprio il 25 aprile. L’idea è di promuovere un dibattito veramente pubblico, non più appannaggio dell’intellighenzia o degli influencer. Un dibattito in cui le persone non siano spettatori, bensì parte attiva, responsabile della propria voce e dunque chiamate a una maggiore informazione e consapevolezza. Ci sono stati politici che si sono rifiutati di ascoltare la popolazione, giudicandola incapace di pensare e capire. Non essendo chiamati in causa, i cittadini hanno smesso di sentirsi responsabili della propria voce e delle proprie opinioni. Diventando, a causa della propria inconsapevolezza, più facilmente manipolabili. Serve un’alternativa a questo sistema, che genera l’ignoranza e i pregiudizi dai quali possono scaturire solo urla e insulti.
Ci piacerebbe riproporre la discussione pubblica così come aveva luogo nella polis greca. Questa volta, però, davvero senza schiavi.
Valeria Meazza