Governo Giolitti e complicità con il fascismo: la denuncia di Matteotti ancora attuale a 100 anni dal ritrovamento del cadavere

Matteotti e fascismo: la denuncia rivolta a Giolitti ancora attuale

In occasione del centenario dal ritrovamento del corpo di Giacomo Matteotti si propone di indirizzare lo sguardo ai discorsi che il deputato socialista espose in parlamento. Furono discorsi di denuncia della verità, nonché parole che lo condussero alla morte. Oggi, quelle parole, pregne di coraggio civile e onestà intellettuale, si offrono come utile promemoria per imparare dalla storia, e leggere con giudizio critico gli eventi dell’attualità.

Il periodo storico compreso tra il 1920 e il 1924 rappresenta un momento che si rende monito per il presente. Il governo di quegli anni, adottando una postura di tolleranza verso le violente azioni fasciste ha determinato implicazioni significative sulla stabilità politica, sfociando successivamente nella marcia su Roma e nell’insediamento del fascismo.

Le vicissitudini e le dinamiche caratterizzanti il periodo politico prefascista ci pongono dinanzi alla consapevolezza che un atteggiamento di complicità verso aree estremiste dettato da interessi e tornaconti politici possa facilmente trasformarsi in un fattore determinante per la loro ascesa.

I discorsi di Giacomo Matteotti in parlamento, dal 1921 al 1924, permettono di percorrere gli eventi e indovinare le dinamiche con cui il fascismo é salito al potere.

Giacomo Matteotti

Giacomo Matteotti, nato nel 1885 a Fratta Polesine, fu una figura centrale nella storia politica italiana del primo novecento. Segretario del partito socialista unitario, avvocato e giornalista, si distinse per il suo impegno in battaglie di giustizia sociale e nella difesa dei diritti dei lavoratori. Eletto deputato per la prima volta nel 1919, si impose subitamente come una delle voci più forti dell’opposizione al fascismo.

Governo Giolitti: “complice di tutti codesti fatti di violenza”

“Domanderemo se il capitalismo assume la responsabilità del fascismo, domanderemo al governo se assume la responsabilità completa delle sue autorità e dei suoi agenti”

(Giacomo Matteotti – discorsi alla Camera 1921)

Le parole poste mostrate sopra sono un frammento di un ampio discorso (inverno 1921) in cui Matteotti alludeva al governo Giolitti, tacciandolo di tolleranza verso lo squadrismo fascista come mezzo per tutelare i propri interessi politici. Per comprendere i motivi di tali accuse  occorre tracciare una mappa del contesto in cui il Governo giolittiano era inserito.

Giovanni Giolitti fu un importante esponente prima della sinistra storica e poi dell’Unione Liberale. Ricoprì la carica di presidente del consiglio dei ministri cinque volte. Quella che va dal 1920 al 1921 fu l’ultima.

Il periodo del primo dopoguerra era connotato dalla grande paura della rivoluzione, che affermatasi in Russia, cominciava però a fare capolino anche in altri paesi. In Italia, con l’allargamento del suffragio che aveva conferito al proletariato uno strumento per accostarsi democraticamente al potere, la classe dominante borghese cominciò a temere la perdita dei privilegi acquisiti durante il Risorgimento.

Coloro che detenevano il reale potere (quello economico), però, erano gli industriali e gli agrari per cui la rivoluzione, che avrebbe determinato un miglioramento delle condizioni del popolo, avrebbe significato una diminuzione di potere e profitto.

Fino ad allora avevano sfruttato le leggi, scagliando legalmente la polizia contro le masse di lavoratori in rivolta. Tuttavia, la crescente pressione delle masse popolari rendeva insufficiente la regolare politica repressiva dello stato liberale, a cui però sopperì la nascita del movimento fascista.

“La classe che detiene il privilegio politico, la classe che detiene il privilegio economico, la classe che ha con sé la magistratura, la polizia, il governo, l’esercito, ritiene sia giunto il momento in cui essa per difendere il suo privilegio esce dalla legalità e si arma contro il proletariato. Il governo e soprattutto le sue autorità assistono impassibili e complici allo scempio della legge.”

(Giacomo Matteotti – discorsi alla Camera 1921)

La borghesia e gli imprenditori, che erano preoccupati per le minacce rappresentate dal socialismo e dal comunismo, trovarono nel fascismo lo strumento per la controrivoluzione del capitale: i padroni necessitavano di uno stato più autoritario e di una forza di repressione posta sotto il loro diretto controllo.  Mussolini aveva intanto compreso che l’unico modo di raggiungere il potere politico era appoggiarsi ai padroni del potere economico.

Così, a partire dal 1920, Mussolini dispiega le proprie squadre che, militarmente armate, si occuperanno di sedare gli animi delle organizzazioni dei popolari e dei socialisti che tentano di far valere i diritti del proletariato.

È in questo quadro che Matteotti, rivolgendosi al governo Giolitti, dichiara che “la violenza esercitata dal fascismo è una reazione, un mezzo di cui la vostra classe vuol farsi arma per provvedere al proprio interesse”, definendo il fascismo come “una reazione non tanto contro gli atti di violenza deplorati, quanto contro le conquiste economiche del proletariato”.

Giolitti, in effetti, sebbene non ne condividesse le ideologie, era mosso dalla speranza che il fascismo, con il suo appello all’ordine e al controllo, potesse servire da freno alle forze radicali, e aiutare a mantenere l’ordine economico e sociale senza compromettere i propri interessi di governo. Egli riteneva di poter sfruttare il movimento fascista attraverso un atteggiamento di tolleranza, e di poterne controllare gli andamenti.

Questa scelta si mostra come un agire del tutto lontano da virtù di lungimiranza, rivelandosi poi una decisione problematica e decisiva, sicché contribuì alla legittimazione di un movimento che avrebbe minacciato e sbriciolato le fondamenta democratiche del paese, riflettendo le conseguenze in Europa, e non solo.

Marcia su Roma: l’illusione che portò il fascismo al potere

Nella visione della classe dirigente liberale, che in quel periodo governava l’Italia per conto della classe dominante borghese, con Giolitti come figura principale, le violenze fasciste denunciate da Matteotti erano considerate un fenomeno transitorio, da sfruttare fino al ripristino dell’ordine precedente al conflitto mondiale. Questi si illudevano di avere ancora il controllo della situazione, mentre in realtà la loro influenza si dimostrava via via sempre più insignificante. Tale verità si mostrò in tutta la sua chiarezza nell’ottobre del 1922 con la Marcia su Roma.

Il governo, guidato nel ’22 da Luigi Facta, allarmato dall’evidente minaccia, si prepara a mobilitare le forze a sua disposizione, nonché l’esercito e la polizia, per fermare quello che era un numero relativamente esiguo di ribelli. Un’operazione che, dal punto di vista militare, sarebbe stata facilmente realizzabile. Tuttavia, dietro i ridotti contingenti fascisti si celavano forze più potenti, desiderose di avere Mussolini al governo come strumento docile per i loro interessi. Per ottenerlo, vengono esercitate pressioni dirette sul re, minacciato di perdere il trono se non appoggerà il fascismo.

Il 28 ottobre, il re rifiuta di firmare il decreto di stato d’assedio, che avrebbe permesso di disperdere le squadre fasciste. Il 29 ottobre, ignorando la maggioranza parlamentare, il re convoca Mussolini a Roma per affidargli l’incarico di formare un nuovo governo.

L’atteggiamento di trascuranza e sufficienza della classe dirigente liberale che ha sottovalutato le potenzialità  del fascismo e i pericoli della complicità di compromesso, ha reso fertile il terreno per la nascita di un totalitarismo.

Le elezioni del ’24: contesto e denuncia di illegittimità

 

“Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora, a voi preparare il discorso funebre per me”

(Giacomo Matteotti – 30 Maggio 1924)

Sono trascorsi cento anni da quando, il 16 agosto, venne ritrovato esanime il cadavere di Giacomo Matteotti.  Rapito, caricato a forza su un auto, e ucciso a pugnalate il 10 giugno 1924 per aver denunciato in parlamento la verità dei fatti. Il mandante, diretto o indiretto, era Mussolini – con tutta evidenza spaventato dall’acuta lucidità con cui Matteotti, il 30 maggio, esponendo quello che sarebbe stato il suo ultimo discorso, aveva contestato la validità delle elezioni del ’24.

Le elezioni del 6 aprile 1924 si svolsero all’interno di un clima di violenza e intimidazione da parte delle squadre fasciste, sia durante la campagna elettorale sia nel corso delle votazioni. Molti candidati ed elettori furono minacciati, percossi, bastonati o uccisi. Sono stati ben pochi, dunque, i seggi in cui si é potuto votare liberamente. 

Nel frattempo le forze antifasciste erano profondamente divise: tutti i partiti si presentarono ciascuno con le proprie liste, conferendo al PNF (partito nazionale fascista) un enorme vantaggio. Vantaggio che era già presente grazie alla legge Acerbo, creata ad hoc per assicurare la vittoria del fascismo. Nonostante questo vantaggio iniziale, i fascisti non rinunciarono alla violenza contro gli avversari: le elezioni volevano essere per Mussolini uno strumento per affermare nero su bianco una vittoria quasi plebiscitaria.

Fu proprio la durissima requisitoria del 30 maggio 1924 nei confronti di tali modalità a condannare a morte il deputato socialista.

Lo storico Giovanni Sabbatucci definisce le elezioni del 1924 come “uno snodo decisivo nel processo di transizione verso la dittatura fascista”.  Questo periodo segnò l’affermazione ufficiale, benché illegittima, del governo fascista, che, dopo essersi imposto con la marcia su Roma nel 1922, iniziò a percorrere in maniera decisa la via verso il totalitarismo.

Sguardo sull’attualità: un parallelismo con il governo giolittiano

“La vostra autorità non esiste. Non si vede un solo atto in Bologna, dopo parecchi mesi che queste violenze si esercitano, contro codesta organizzazione. E non ve lo domandiamo onorevole Giolitti; sappiamo che voi dovete esserne il complice inevitabile.”

(Giacomo Matteotti – Discorsi alla camera 1921)

La strumentalizzazione dello squadrismo fascista, da parte del governo liberale, come mezzo per arginare il pericolo socialista, aveva come motivo profondo la necessità di mantenere intatto l’elettorato borghese.

Nel momento in cui un governo sceglie di non prendere posizione davanti al richiamo alla violenza si rende complice di tale richiamo.

Il governo attuale, presieduto dalla presidente Meloni, é diverse volte risultato manchevole di una presa di posizione severa davanti ad azioni richiamanti il fascismo o ideologie estremiste. Spesso mantenendo un linguaggio e un atteggiamento ambiguo, utile a mantenere uno spiraglio aperto al bacino di elettori nostalgici. La recente inchiesta di Fanpage sull’organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia, Gioventù Nazionale, mostra come non solo l’elettorato ma anche i militanti si sentano a proprio agio nel partecipare a tale movimento. Si tratta dell’esempio più recente di quelle che sono le conseguenze di un atteggiamento che, per proprio tornaconto, strizza l’occhio a una fetta di elettorato estremista per conservarne i voti.

Lungo è l’elenco degli episodi che nel corso della legislatura hanno fatto cenno al fascismo, e troppe le volte in cui la reazione del governo é stata assente. Questa manchevolezza però crea un ambiente ottimale per la proliferazione di tali atteggiamenti, in cui i protagonisti si sentono legittimati dalle mancate reazioni del governo.

Basti pensare ai costanti richiami alla X mas da parte di Vannacci, a Furgiuele che in aula, infastidito dal canto di “Bella ciao”, risponde con una X mas (qui le imbarazzanti dichiarazioni); ll raduno di Predappio, la nomina di Bignami a sottosegretario; si pensi alle diverse aggressioni neofasciste, come quella del 18 giugno 2024 opera di militanti di CasaPound che hanno aggredito alle spalle due studenti di ritorno da una manifestazione di colore politico diverso, o l’aggressione ad Andrea Joly del 21 luglio 2024, sempre per conto di CasaPound, e alla sconcertante reazione di La Russa in seguito all’accaduto.

Si pensi poi a questi eventi inseriti in un contesto dominato dall’incapacità, da parte degli esponenti del governo, di definirsi in modo esplicito, con la terminologia specifica, “antifascista”.

Il governo Meloni sembra adottare un atteggiamento di ambiguità nei confronti delle azioni dei movimenti nostalgici. Nonostante le manifestazioni di nostalgismo e le ambiguità nel discorso politico, il governo evita di prendere una posizione chiara e perentoria contro tali fenomeni, lasciando spazio per una potenziale normalizzazione delle ideologie estremiste.

Conclusione

Entrambi i governi, quello di Giolitti e quello di Meloni, sebbene in modi differenti, hanno mostrato una tendenza a sottovalutare il pericolo del fascismo, considerando il movimento come una leva utile per i propri fini politici.

La storia ci invita alla vigilanza democratica: ignorare o minimizzare le minacce fasciste, o estremiste di qualsiasi fazione, può portare alla ripetizione di errori passati, le cui conseguenze senz’altro si verificherebbero in modi differenti, in tutta probabilità senza riportare al governo il fascismo. Il pericolo più evidente e immediato risiede nella di legittimazione di azioni violente e/o discriminatorie, aumentandone la ricorrenza degli episodi.

In onore dell’eredità di Matteotti, risulta cruciale che la società italiana prenda le distanze da atteggiamenti di reticenza, riaffermando con forza il suo rifiuto del fascismo, così garantendo la protezione della democrazia e della dignità di ogni individuo.

Alessandra Familari

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