Le immagini della fuga dal centro di Kabul sono ancora vive negli occhi di milioni di cittadini occidentali. Impotenti dietro gli schermi tv assistono a quello che non è un drammatico film di Hitchcock. È la storia della civiltà umana che gira le spalle all’occidente. Lascia quindi senza parole l’annuncio del decreto che vieterebbe i matrimoni forzati. È forse questo un segnale di apertura? O solo un’astuta mossa politica?
La presa del potere fino allo stop ai matrimoni forzati
Dalla fuga dei cittadini afgani aggrappati agli aerei americani in fase di decollo (impauriti per la piega che la propria vita potesse prendere) a oggi molte cose sono cambiate. Come può combinarsi il recente divieto di matrimoni forzati, a vantaggio dei diritti delle donne, con la politica di ritorno alla tradizione e chiusura condotta in questi mesi?
Dopo la presa di Kabul e il ritiro delle truppe americane è stato nominato un governo provvisorio dei talebani. Il loro temuto ritorno ha inaugurato un clima di violenze e attentati senza sosta. L’Afghanistan rialza i muri che faticosamente si era tentato di abbattere in 20 anni di sofferte missioni. Si isola dal resto del mondo nonostante avesse annunciato l’impegno alla cooperazione internazionale.
A soli pochi mesi il bilancio è preoccupante anche sotto il profilo economico. Il clima di ripetute tensioni non rappresenta terreno fertile per gli investimenti. La crisi economica in un Paese al limite è inevitabile con il tracollo dell’intero sistema bancario.
Sin dal suo primo insediamento il governo dichiara che non ci sarà un sistema democratico ma vigerà la legge della “Sharia”. La promessa è mantenuta a discapito dei fondamentali diritti umani. Cade Kabul e con essa il diritto alla libera informazione, sotto lo stretto controllo del regime. Il Paese è incatenato, sottrattagli la libertà di espressione e pensiero, al se del passato senza prospettiva di futuro.
Apertura ai diritti delle donne con il divieto di matrimoni forzati?
I valori tradizionali vengono scanditi a chiare lettere anche nel mondo dell’arte e della cultura, difesa e tutelata solo nell’ottica della tradizione. A subirne le conseguenza più atroci in questa visione di radicata arretratezza sono come sempre le donne. Capri espiatori prediletti dall’alba del mondo, ritornano tali quando si portano indietro le lancette dell’evoluzione. Uno dei primi provvedimenti proibisce la presenza di “accattivanti” figure femminili in tv. Dovranno indossare sempre il burqa, si noti bene non è consentita discrezionalità. Lo scopo è quello di prevenire il vizio ed incentivare la virtù. Lo stigma della donna pura torna alla ribalta, un grande classico del resto che sa sempre farsi apprezzare un po’ ovunque.
Con l’abolizione delle classi miste il genere femminile, tuttavia a detta del neo governo, potrà continuare la propria frequenza scolastica separatamente. Per ora non sembra possibile. L’istruzione è preclusa integralmente sopra tutto alle giovani di fasce d’età più elevate. Non è necessario chiarire lo scopo che si intende perseguire. Inibire il sapere è la modalità più semplice per impedire il progresso individuale di una coscienza e di un’identità, ma anche collettivo di una società. Tutte attribuzioni che non sono roba da donne. E’ bene che non si diano loro gli strumenti per poter capire e conoscere. Subordinate alle loro incombenze domestiche, oggetti sessuali della dittatura della libertà femminile, sono tenute in “cattività”. Del resto il nuovo governo è composto da vari esponenti, neanche a dirlo tutti uomini.
Il decreto dei talebani
Nel quadro generale un provvedimento come quello da poco emanato non può che rappresentare una nota stonata nel programma di ritorno alle origini inaugurato dai talebani. Il governo ha emesso un decreto di cui sono protagoniste proprio le donne. L’obiettivo non è però quello di togliere loro i pochi diritti residuati dalla precedente razzia.
L’Amir al-Muminin (“comandante dei credenti”) ha imposto a tutte le autorità di mobilitarsi per introdurre e perseguire i diritti delle donne. Il decreto si compone di 10 punti di cui i primi 3 spiccano in particolare. Al secondo si legge nero su bianco che la donna è definita essere umano nobile e libero. Non è una proprietà della famiglia e non può essere “oggetto” di scambio in sede di conflitto.
Il primo e il terzo si occupano del tema dei matrimoni forzati, spinosa e dolorosa questione per le donne afgane. Costrette a sposare parenti o estranei selezionati per loro sin dalla più tenera età. L’elemento chiave del vincolo nuziale, il consenso, esiste ma solo quello maschile è rilevante. La donna accetta silente un destino già deciso, il burqa nasconde con il viso anche le lacrime delle donne. Secondo quanto si legge da ora in poi i matrimoni forzati non potranno essere celebrati. La donna deve essere consapevole e consenziente all’unione. Se infine diverrà vedova non potrà essere obbligata a nuove unioni con parenti, per non pesare economicamente sulle spalle della famiglia. E’ libera anche in questa fase di scegliere.
Si leggono poi vari appelli alle singole autorità di promozione dei diritti del genere femminile, con campagne varie di sensibilizzazione che fanno ben sperare sull’effettiva attuazione.
Prevenzione della sedizione
La rivoluzione è importante ma non totale. Si legge anche infatti che è necessario tenere in considerazione il principio di prevenzione della sedizione. Appare come una clausola di salvaguardia, in gergo una scappatoia, che potrebbe portare alla disapplicazione dei diritti a vantaggio della protezione dei valori di “buon costume” tradizionali.
Insomma non è tutto oro quel che luccica, come sempre il tranello è dietro l’angolo. La dichiarazione segna un’apertura di portata epocale nella storia dei diritti. Purtroppo non è sufficiente perché le parole vanno poi trasformate in fatti ed è qui che iniziano le difficoltà reali.
Molto alla lontana si può pensare alle quote rosa in Parlamento. Senza che si faccia nulla per consentire alle donne di conciliare la propria vita personale con quella politica. Costringendole a fare una scelta solo al femminile. Il paragone non regge per la gravità delle violenze e soprusi che coinvolgono le donne afgane, ma serve a sottolineare che il momento più significativo per parlare di un diritto garantito è quello in cui è attuato non solo annunciato.
Assenti ingiustificate sono menzioni al diritto al lavoro e allo studio, ancora preclusione piena per le donne. Come possono queste emanciparsi, decidere per il proprio futuro ed essere protagoniste nella propria vita senza una stabilità economica?
Perché si apra all’uguaglianza non si possono garantire diritti escludendone altri. Si tratta di un unico pacchetto di garanzie fondamentali, l’una funzionale all’altra.
La comunità internazionale
I leader del mondo hanno subito felicemente commentato la notizia. Augurandosi che la strada intrapresa venga proseguita, ottimo presupposto per il riconoscimento internazionale. La speranza da coltivare è che questo sia uno dei primi passi verso la crescita a proprio modo di una società che rivendica a buon diritto la sua cultura. Non può tollerarsi però che nell’affermazione della stessa vengano sacrificati i diritti fondamentali. Non possono questi essere oggetto di discussione o negoziazione, ma devono essere di certa esecuzione. Si auspica che per il riconoscimento internazionale si esiga di più di questo. Lo si deve a tutti coloro che hanno creduto e lottato per un Paese aperto al mondo in tutte le sue straordinarie bellezze. Lo si deve alle donne afgane che meritano di scegliere se mostrare il loro sorriso.
Sofia Margiotta