Maternità e femminismo. Intervista a Valentina Melis

Maternità

In occasione dell’uscita del suo primo libro Una mamma ansia e sapone, abbiamo intervistato l’attrice Valentina Melis per parlare della sua esperienza di maternità, ma anche del suo attivismo femminista.




La nostra società impone alle donne delle pressioni ambivalenti riguardo alla maternità. Da una parte ci portiamo ancora dietro una visione vetero-patriarcale per cui la donna che decide di non avere figli viene vista come mancante o incompleta, se non addirittura stigmatizzata. D’altro canto però, è innegabile che le madri debbano affrontare una serie di difficoltà di vario genere: dall’imperativo a tornare immediatamente in forma dopo il parto alle discriminazioni sul lavoro. Tu hai subito in qualche modo queste pressioni?

Noi donne partiamo sempre da uno svantaggio, sia che siamo madri sia che non lo siamo. Lo stigma sulle donne che scelgono in maniera consapevole di non avere figli pesa ancora tantissimo. Ho scritto al riguardo e sono molto attenta su questo perché mi sembra assurdo che nel 2021 una donna non possa ancora dire liberamente di non voler diventare madre. Come invece possono fare gli uomini molto più tranquillamente. Se invece scegli di diventare madre partono altri tipi di stereotipi. Per esempio se non sei una madre “classica”, quella che la società si aspetta: la madre pronta a sacrificarsi, a mettere tutto dopo. Quando hai un figlio è come se la donna venisse eliminata: diventi la madre, ovvero quella che rinuncia a tutto per il figlio. Vita, lavoro, passioni, qualsiasi cosa. Quindi è veramente molto difficile.

Per quanto riguarda la mia esperienza sono stata fortunata, perché ho un compagno che ha condiviso con me tutto questo e che mi ha aiutata. Anche se non si dovrebbe parlare di fortuna perché dovrebbe essere normale. Un’altra fortuna è stata il mio essere femminista, che mi ha aiutato a non subire quei sensi di colpa che subiscono le madri che vogliono continuare ad essere donne, essere persone. Nonostante questo anch’io ho subito alcune critiche o giudizi, per esempio quando sono tornata a lavorare. Soprattutto per quanto riguarda carriera e lavoro si viene spesso giudicate, perché quando nasce un figlio sembra che tutto questo debba venire dopo.

Cosa rappresenta per te la maternità?

Io ero totalmente all’oscuro di cosa significasse prima di rimanere incinta, anche perché sono figlia unica e non avevo esempi di amiche o parenti. Per me è un continuo imparare, è come una scuola. Molto bella, molto faticosa, che mi sta insegnando tanto. E credo che sarà così per sempre.

Quali sono secondo te gli stereotipi più dannosi legati alla figura della madre?

Sicuramente il senso di colpa. Essendo femminista ed essendo cresciuta in una famiglia femminista ho una certa consapevolezza su questo, eppure anch’io sento spesso questo senso di colpa. Ci sono donne che per diversi motivi non hanno questa consapevolezza e penso che ne soffrano molto. Anche perché spesso queste cose non si possono dire. Si pensa che una mamma dovrebbe sempre essere grata e felice. Se ti permetti di dire che sei stanca, arrabbiata, che non ce la fai più, o che per una sera hai voglia di uscire sembra che tu sia una cattiva madre. Per questo molte volte non ci apriamo, e questo fa aumentare ancora di più il senso di colpa.

Gli stereotipi che ti portano a provare senso di colpa sono i peggiori perché rischiano di portare una madre alla depressione o a situazioni molto pericolose. Anche perché ci permettiamo di giudicare troppo spesso i comportamenti delle madri senza conoscere la loro situazione.

Un altro stereotipo molto dannoso è pensare che la donna che diventa madre istintivamente sappia tutto. Invece le madri devono scoprire e imparare a gestire un sacco di cose. All’inizio il bambino dipende totalmente da te: sei tu che lo devi nutrire, sei tu che hai il contatto più diretto con lui, perché fino alla nascita è stato dentro di te e l’unica cosa che conosce sei tu. Questa è un’enorme responsabilità ed è anche molto difficile da gestire. Se non hai un compagno o i nonni che possono aiutarti tutto questo può anche distruggerti psicologicamente. Ripeto, soprattutto per il fatto che non ci si sente in diritto di parlare delle proprie difficoltà.

Finché la donna è in gravidanza è lei al centro: tutti ti chiedono come stai e ti senti messa su un piedistallo. Appena partorisci tutto il focus si sposta sul bambino, com’è giusto che sia, ma non bisogna dimenticarsi della madre. Anche perché se la madre, che è in un momento molto fragile sia fisicamente che psicologicamente, sta male di conseguenza starà male anche il bambino. Per questo secondo me è così importante parlarne e condividere le proprie esperienze, che sono tutte diverse. Non c’è un momento uguale per tutte in cui arriva l’istinto materno. Quello che mi farebbe piacere far sapere è che tutto questo è normale, e non ci si deve sentire in colpa o pensare di essere cattive madri.

Visto che hai parlato della tua famiglia, ci racconti che tipo di mamma è stata la tua?

La mia mamma è stata non solo femminista, ma anche molto attiva politicamente come sindacalista. Lei ha sempre lavorato e visto che anche mio padre lavorava io sono andata prestissimo all’asilo nido. Ora questa scelta la capisco. È stata una bravissima mamma, che mi ha insegnato tanto, ma ha sempre tenuto alle sue passioni e ai suoi ideali. E poi ho avuto la fortuna di avere l’esempio di due genitori che si compensavano, che erano veramente al 50%. Per me è stato un privilegio essere nata in una famiglia del genere, perché mi ha aiutata tanto nel percorso che sto affrontando ora. Quando hai la fortuna di avere un esempio così è più facile riuscire a trasferirlo.

Parliamo del ruolo dei padri. Ovviamente gli stereotipi di genere colpiscono anche gli uomini e nel momento in cui diventano padri devono confrontarsi anche loro con una serie di imposizioni e di pregiudizi. Tanto è vero che gli uomini che cercano di avere un ruolo attivo e paritario nella cura dei figli vengono spesso derisi con l’orribile appellativo di “mammo”. Qual è la tua visione del ruolo di padre?

Sì, questa parola mi fa veramente arrabbiare! Peraltro ho scoperto che esiste perfino nel dizionario, in cui si dice che è un uomo che fa quello che dovrebbe fare una mamma. Già da questo si capisce quanto la nostra società deleghi totalmente la cura dei figli alle donne. Invece questo dovrebbe essere davvero un lavoro comune, al 50%. Visto che un bambino lo si fa insieme, insieme bisogna occuparsene. Magari la coppia può decidere alcune mansioni in base alle peculiarità di ognuno dei genitori. Per esempio, mentre il mio compagno si occupa del bagnetto, io faccio da mangiare, in modo da dividersi equamente i compiti. È così che dovrebbe essere, ed è anche giusto per gli uomini.

Conosco tanti padri che si ritrovano a subire questa visione, e che invece vorrebbero riprendersi il loro ruolo. Per fortuna negli ultimi anni le cose stanno andando avanti e molti padri sentono la responsabilità di occuparsi dei figli. Il padre non è una figura accessoria, è un pilastro esattamente come la madre. Dovrebbero essere interscambiabili. Quindi mi auguro che la parola “mammo” non venga più utilizzata e che si rivendichi il ruolo di padre, che fa esattamente le stesse cose della madre: si occupa di suo figlio.

Come ti sei avvicinata al femminismo e quale è stato il tuo percorso?

Come dicevo la mia famiglia è femminista, quindi per me è stato molto naturale. Però bisogna dire che è molto faticoso cercare di trasmettere una serie di valori, smontare stereotipi e scontrarsi con un altro tipo di discorso che viene dalla scuola e in generale dalla società. E questa cosa l’ho vissuta io stessa, perché per motivi pratici sono andata a scuola dalle suore: quindi avevo due modelli molto diversi con cui confrontarmi. Quindi anche io ho dovuto fare un percorso personale, costruire una certa consapevolezza, anche avvicinandomi ad altre compagne. E soprattutto si tratta di un percorso continuo, perché purtroppo è molto facile ricadere in certi schemi. Per esempio cerco di tenere per me le mie antipatie (che possono esistere) per altre donne, perché in questa società tutte noi partiamo con uno svantaggio e io non voglio aggiungere ulteriori ostacoli.

La pandemia ha reso ancora più evidenti le disparità di genere. La percentuale di donne che hanno dovuto lasciare il lavoro è drammaticamente alta perché persiste ancora l’idea che siano le donne a doversi sobbarcare il lavoro di cura. Questa problematica va risolta a livello strutturale e istituzionale. Tu sostieni “il giusto mezzo”, ci spieghi di cosa si tratta e quali sono le vostre richieste?

“Il giusto mezzo” è nato proprio durante il primo lockdown da un gruppo di donne che hanno iniziato a ragionare su quanto la pandemia pesasse sulle donne, e soprattutto sulle madri lavoratrici. Perché appunto il lavoro di cura è sempre delegato alle donne e se c’è qualcuno in famiglia che deve lasciare il proprio lavoro quasi sicuramente sarà la donna. Anche perché mediamente le donne guadagnano meno degli uomini. Da queste considerazioni è nato un movimento molto grande, con tantissime attiviste e la petizione che hanno lanciato è stata firmata da più di 50.000 donne. In questa petizione si propone di destinare la metà del recovery fund alle donne. Nel 2020 sono state circa 312.000 le donne che hanno perso il lavoro, il 21% delle donne disoccupate o che hanno lasciato il lavoro l’hanno fatto perché dovevano dedicarsi a un lavoro di cura.

“Il giusto mezzo” chiede interventi concreti perché questo dislivello tra uomini e donne venga parificato. Anche perché le donne sono più del 50% della popolazione e se questa percentuale rischia di non lavorare come fa a ripartire l’economia di un paese? La nostra richiesta riguarda quindi tutte e tutti, perché un paese deve poter contare sulle energie e sullo sforzo lavorativo di tutte e tutti.

Chiediamo anche, per esempio, più asili nido, in modo da consentire alle donne di poter lavorare. Un’altra richiesta è portare il congedo di paternità, che in Italia è di dieci giorni, a cinque mesi obbligatori. Ci sono tante altre iniziative e invito tutti a consultarle, a firmare la nostra petizione e unirsi in questa lotta che riguarda tutta la popolazione, non solo le donne.

Quanto è stato importante per te il supporto di altre donne nel post-partum?

Personalmente non ho avuto grande sostegno. Io sono di Milano, ma vivo a Roma, e nel momento in cui ho partorito non avevo ancora fatto grandi amicizie a Roma. Non ho avuto una depressione post-partum, ma una grande fatica, come quasi tutte le donne dopo la gravidanza. L’ho superata quando ho iniziato a uscire con le mamme del corso preparto. All’inizio non partecipavo alle loro uscite perché mi vergognavo. Pensavo che tutte loro sarebbero state bravissime e che avrebbero pensato che io invece non ero in grado di occuparmi di mia figlia.

Quando poi ho deciso di fregarmene del giudizio degli altri ho scoperto che tutte quante la pensavamo così! È per questo che è importante fare rete e raccontare il proprio disagio o le proprie esperienze. Più donne lo sanno, meglio è. Anche per poter scegliere in maniera consapevole e non immaginarsi la maternità come un percorso sempre meraviglioso e senza ostacoli.

Hai qualche consiglio da dare ai genitori (o futuri genitori) per dare un’educazione paritaria e femminista ai figli?

Io ci sto provando, non è facile perché come dicevo ci si deve scontrare con la società. Una cosa da ricordare è che non esistono giochi da maschio e giochi da femmina. Bisogna poi eliminare le frasi che riportano uno stereotipo di genere: il classico esempio è “non piangere come una femminuccia!”. Tutte quelle frasi che fanno sentire il bambino incanalato in uno stereotipo sono da evitare. I bambini e le bambine devono avere la percezione di poter fare tutto quello che vogliono.

E poi dare l’esempio, perché è da quello che i bambini imparano, cercando di mostrare che la mamma e il papà fanno le stesse cose. Non fare commenti sessisti di fronte ai bambini, non forzarli a dare un abbraccio o un bacio a un parente. Soprattutto con una bambina è una cosa su cui stare molto attenti per non creare modelli sbagliati. Così come non si deve dirle che se un bambino la spinge o le tira i capelli è perché gli piace. Tutte queste cose rischiano di far passare dei messaggi completamente sbagliati che possono persistere nell’età adulta e nelle future relazioni. Ci sono veramente tantissime cose su cui lavorare e dovrebbe esserci uno sforzo congiunto tra scuola e famiglia.

Link all’intervista integrale a Valentina Melis: https://www.instagram.com/tv/CNAwmeSlloZ/

Giulia Della Michelina

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