Lo Stato Maggiore dell’Esercito di Myanmar ha riconosciuto che le forze di sicurezza birmane hanno partecipato al massacro di dieci Rohingya lo scorso settembre nel villaggio di Inn Din, nello stato di Rakhine; i corpi delle vittime erano stati ritrovati a dicembre in una fossa comune.
Il generale Min Aung Hlaing ha pubblicato un post su Facebook in cui parla di una rappresaglia nei confronti della minoranza, che definisce con il termine dispregiativo spesso usato nei loro confronti, dichiarando:
“Alcuni abitanti del villaggio di Inn Din e alcuni membri delle forze di sicurezza hanno ammesso di aver ucciso dieci terroristi bengalesi. L’incidente è avvenuto perché i residenti erano stati minacciati e provocati dai terroristi.”.
Il messaggio ha inoltre confermato per la prima volta l’esistenza di una fossa comune di Rohingya nello stato di Rakhine, fossa creata in seguito a un’offensiva condotta dall’esercito contro i militanti delle minoranze alla fine di agosto.
Dalla fine di agosto, 655mila Rohingya sono fuggiti dallo Stato birmano di Rakhine e si sono rifugiati in Bangladesh, dove però non sono graditi: a dimostrarlo anche la legge, appena confermata dall’Alta corte del Bangladesh, che vieta ai musulmani di etnia Rohingya di sposarsi nel Paese sia tra membri della minoranza, sia con un cittadino bengalese.
I Rohingya hanno raccontato di massacri, stupri e torture perpetrati dalle forze di sicurezza birmane e dalle bande di coloni di Rakhine: queste accuse sono state confermate dai media e dalle organizzazioni per i diritti umani.
Secondo Medici senza frontiere sono morti almeno 6.700 Rohingya, mentre l’Unicef si concentra sulla parte centrale del Rakhine, dove migliaia di bambini sono stati dimenticati, intrappolati in ventitré squallidi campi profughi dal 2012, e dichiara:
“Le nostre stime più ottimiste indicano che sono circa 60.000 i Rohingya ancora a Maungdaw, rispetto a una popolazione che, prima del 25 agosto, era di circa 440.000 persone. I bambini Rohingya che rimangono in aree rurali sono quasi completamente isolati”.
Gli Stati Uniti e l’ONU hanno accusato la Birmania di pulizia etnica e hanno sollevato dubbi sul fatto che la repressione potesse essere un genocidio. L’Onu ha definito l’offensiva:
“Un esempio da manuale di pulizia etnica.”.
L’esercito birmano ha finora negato le accuse, chiarendo qualsiasi crimine con un’indagine interna; chi ha tentato di indagare sul possibile genocidio è stato accusato, come è accaduto a Wa Lone e Kyaw Soe Oo, giornalisti dell’agenzia internazionale Reuters.
L’ufficio del procuratore della Birmania ha presentato ieri, 10 gennaio, le accuse contro i due giornalisti, detenuti il 12 dicembre scorso con l’accusa di attentato al segreto di Stato (legge coloniale che protegge la segretezza di documenti ufficiali e che include pene fino a quattordici anni di carcere): avevano incontrato a cena due poliziotti che dovevano fornire loro alcuni documenti riservati sulla pulizia etnica dei Rohingya.
I giornalisti torneranno in tribunale il 23 gennaio, quando i giudici decideranno se accettare il caso e se sarà possibile il rilascio su cauzione.
Le accuse contro di loro hanno provocato indignazione in tutto il mondo e organizzazioni e diplomatici per i diritti umani hanno chiesto la loro liberazione immediata. Mentre si teneva l’udienza, decine di giornalisti birmani si sono riuniti di fronte al tribunale, vestiti di nero e con cartelloni e magliette riportanti la scritta:
“Il giornalismo non è un crimine“.
Fadua Al Fagoush