Una bomba cade sulla sua casa. Lei, sedicenne siriana, rimane sfigurata da ustioni di terzo grado alla faccia, al petto e alle braccia.
L’unica alternativa, per lei e per la sua famiglia, è andarsene via e cercare cure all’estero. Fuggono in Turchia e qui Marwa al-Shekh Ameen riceve le prime medicazioni. Poi si stabiliscono in Germania, in un paesino vicino Norimberga, dove tutta la famiglia riesce a integrarsi bene: lei, la mamma, i suoi fratelli, i nonni e gli zii. Tuttavia, dopo tredici operazioni per curare i traumi, i medici tedeschi non possono fornire alla sedicenne le cure specifiche di cui ha bisogno. La invitano a recarsi presso le strutture sanitarie statunitensi.
Inizia così il lungo travaglio di Marwa. Fiduciosa, ma anche scossa dall’accaduto e dalla nuova vita lontano da casa, prende appuntamento all’ospedale pediatrico Shriners di Boston, fissato per novembre 2018. Alcuni volontari del Massachusetts si offrono di procurarle un alloggio temporaneo per lei e suo padre. Il resto della sua famiglia resta in Germania.
Il 20 dicembre gli Stati Uniti le negano il visto. Non ci prove sufficienti che lei torni effettivamente in Germania, secondo il governo americano. Un’intera famiglia a casa che ti aspetta, una nuova vita appena ricominciata, la scuola, gli amici, l’integrazione ormai avviata non sembrano significare niente, per chi ha gli occhi annebbiati da razzismo e disumanità. La colpa è da ricercare nel Travel Ban, o Muslim Ban, la novità disumana firmata Donald Trump.
Cos’è il Muslim Ban
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha approvato nel 2017 due ordini esecutivi informalmente chiamati Muslim Ban, con il voto favorevole di sette giudici su nove. Sono provvedimenti che impongono limiti all’accesso negli USA ai cittadini di Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Ovvero ai Paesi in cui vivono in maggioranza musulmani.
Il visto viene rilasciato da un team di avvocati che analizzano caso per caso. Sono state 33mila le richieste in sei mesi. Soltanto il 2% di esse ha visto concedersi il visto. La contraddizione e ipocrisia di questo provvedimento disgustano: l’Iraq non è sulla lista nera in quanto alleato di Washington. Disgusterebbe comunque, ma così un po’ di più.
La storia raccontata dallo zio
“Se l’ospedale ritiene di poter migliorare la qualità della vita di Marwa, nessuno con un po’ di compassione potrebbe negarle questo trattamento vitale. Marwa e la sua famiglia erano devastate. Erano pieni di speranza che il visto sarebbe stato concesso. Marwa si è rattristata al pensiero che i diritti umani non contino più”, scrive in una e-mail lo zio Nael al-Shekh Ameen, inviata al giornale The Guardian. Dopo il rifiuto del visto, la ragazza smette di mangiare, si sente male a scuola e a casa, manifesta forti problemi di stress e ansia. Viene fatta visitare da una clinica psichiatrica, che individua come causa dei mali l’agonia del non poter sottoporsi alla ricostruzione chirurgica. Ora è anche sotto cura psichiatrica.
Certo, Marwa potrà nuovamente fare domanda per il visto, ma cosa cambierebbe dall’ultima volta? Una mobilitazione dell’opinione pubblica potrebbe indubbiamente aiutarla. Lo zio ha sicuramente smosso le acque, chiedendo ai media di parlare, parlare e ancora parlare della storia della nipotina. Per quanto possa servire, due membri del Parlamento tedesco hanno preso posizione in favore della ragazza, scrivendo una lettera al governo americano.
Il problema è che casi come questo avvengono ogni giorno, sotto gli occhi di tutti e di nessuno. Perché lo sappiamo, ne siamo a conoscenza, ma preferiamo voltarci dall’altra parte e non guardare in faccia un volto sfigurato, un passato distrutto dalla guerra e un futuro a cui, con la nostra indifferenza, stiamo togliendo ogni certezza.