Di Carmelo Musumeci
L’altro ieri mi è arrivata la triste notizia che nel cimitero degli elefanti del carcere di Parma, dove vanno a morire molti ergastolani stanchi e malati, è mancato Mario Serpa, dopo 40 anni di carcere. In galera nascono le amicizie più vere e fra gli ergastolani quelle più profonde. Mario era un mio amico, un brav’uomo, perché si può commettere gravi reati ed essere una bella persona, ma non sempre purtroppo è vero il contrario. Non sempre chi non commette reati è una brava persona e non lo sono certo quelle persone delle istituzioni che hanno lasciato morire Mario chiuso in una cella, soprattutto perché lui da tempo non era più l’uomo del reato. Certo la legge e le istituzioni non possono avere cuore, ma credo che chi li rappresentano lo dovrebbero avere, però capisco anche che spesso queste persone non lo possono avere perché la società chiede giustizia, ma in realtà vuole solo becera vendetta, anche quando non è più necessaria. Per questo sono convinto che prima di pensare ad educare i detenuti bisognerebbe pensare ad educare la società al perdono sociale, perché una pena che fa male poi fa male soprattutto alla società.
Chi era Mario? Un figlio del sud che lavorava la terra. Ancora giovanissimo, gli uccisero il padre per una vendetta trasversale, nel 1979. Nelle carte processuali era scritto che si era fatto giustizia da solo. Qualche persona “perbene” potrebbe pensare che “se l’è cercata”, perché ci ha messo del suo a diventare colpevole. Probabilmente è vero, ma Mario da anni non era più la persona del reato, quindi perché farlo morire in carcere? Si era sposato giovane e aveva avuto tre figli, di cui due nati con gravi disabilità. La moglie era morta di cancro durante i primi anni di carcere.
Ho conosciuto Mario negli anni ’90, nel carcere di Nuoro. Quando lo conobbi ebbi subito una buona impressione. Mi sembrò subito uno che nella vita ne aveva viste tante. I nostri occhi si capirono senza parlarsi. E diventammo subito amici. Mi accorsi presto che sorrideva poco e che la tristezza lo accompagnava come un’ombra. La sua unica ragione di vita erano i suoi figli e soffriva di non poter accudire almeno quelli disabili. Viveva distaccato ed estraniato da tutti gli altri prigionieri, nel suo mondo di solitudine e ombre e pensava spesso alla morte della moglie. A volte ci facevamo coraggio a vicenda e ci dicevamo:
“La lotta per la libertà è una strada lunga. Fatta di sacrificio. Dolore. Fallimento. Spesso per gli ergastolani una via senza nessuna uscita. Ma pur sempre una via che vale la pena di percorrere.”
Grazie ai miei studi giuridici, gli feci io la prima istanza per superare l’ergastolo ostativo: mentre a me l’avevano rifiutata, a lui l’avevano accolta e ne fui tanto felice. Lo rincontrai anni dopo nel carcere di Padova: lo avevano chiuso dalla semilibertà, poi ho saputo che era stato assolto a formula piena, ma ciò nonostante non lo hanno fatto più uscire.
Qualche lettore si potrà indispettire per il titolo di questa mia testimonianza, “morte di un ergastolano perbene”, perché molti pensano che non ce ne possano essere, ma io ne ho incontrati molti, anche di più di coloro che rispettano la legge o che vanno in giro con il rosario.
Ciao Mario: in un modo o nell’altro ce l’hai fatta ad uscire, anche se meritavi molto di meglio.