Margherita Guidacci: quando la poesia si fa rinascita e resurrezione

Margherita Guidacci

È incontrando l’Altro che si rinasce, riscoprendo un amore che dà nuova vita anche a se stessi. Fu questo ciò che mosse la penna di Margherita Guidacci, poetessa e traduttrice del Novecento che lasciò una forte traccia nella letteratura italiana. 

Per lei le parole sono contenuto: non si accostò alla corrente ermetica proprio perché considerava la parola come uno strumento di comunicazione capace di regalare uno scambio di idee ed emozioni.

Accenni biografici

Margherita Guidacci nacque a Firenze il 25 aprile 1921. Fu figlia unica e trascorse un’infanzia e un’adolescenza piuttosto solitaria, dedicandosi soprattutto allo studio e alla lettura. Si laureò in Lettere con una tesi sulla poesia di Ungaretti e, affascinata da Thomas S. Eliot Emily Dickinson, cominciò a studiare l’inglese, diventando successivamente traduttrice di numerose opere straniere. Per molti anni insegnò al liceo e nel 1976 ottenne la cattedra universitaria di Letteratura anglo-americana. 

Da sempre coltivò una passione per la scrittura e per l’arte. Come poetessa esordì con La sabbia e l’angelo (1946). Continuò a scrivere negli anni, rendendo la poesia specchio della sua vita. Neurosuite (1970) e Terra senza orologi (1973) fanno riferimento al doloroso periodo che visse dopo la sua crisi coniugale e la morte del marito avvenuta nel 1977. Si spense a Roma nel 1992.




Stile e tematiche poetiche

Durante gli anni Quaranta la poetessa si confrontò con l’Ermetismo rendendosi conto che non era ciò che la facesse esprimere appieno. Sentì la necessità di esprimersi in un linguaggio più concreto e denso di pensiero.

Ella rinunciò alla «parola assoluta» e alla parola epifanica di Ungaretti, riconoscendo che «la parola ha ricominciato ad essere considerata uno strumento di comunicazione e non d’incantesimo». A questo proposito, disse:

Avevo capito […] che i miei interessi erano soprattutto di contenuto; che le parole per me valevano per il loro senso ordinario e corrente, di scambio, […] e che la mia ricerca […] avrebbe dovuto svolgersi in un accostamento drammatico di significati, anziché in un accostamento magico di suoni.

I motivi ricorrenti della sua poesia riflettono la trasformazione e il mutamento vissuti nella sua vita: la nascita e la morte, i ricordi del passato, il dolore di vivere che diventa gioia, risurrezione e speranza.

La fine improvvisa del suo matrimonio fu paragonata ad un un inatteso spartiacque, senza possibilità di ritorno. Durante questa crisi, alla quale conseguì una riabilitazione psichica, la poetessa realizzò i suoi lavori in una dimensione umana e comunicativa più ampia e matura. Dopo la fine di questo amore ne arrivò un altro, un amore del passato, ritrovato, che le portò una gioia inaspettata.

Inno alla gioia: la poetica dell’incontro e dell’amore ritrovato

Forse non è una delle raccolte più famose, ma Inno alla gioia (1983) esemplifica la forza interiore della poetessa. Segue il leitmotiv degli opposti che si ritrova anche in molte sue opere precedenti: la nascita e la morte, la perdita e l’incontro e il dolore che diventa “felicità respirabile”. Scrisse questa raccolta da marzo a dicembre del 1982 con una vitalità che aveva dimenticato a causa la crisi vissuta nel decennio precedente e narrata in Neurosuite (1970). 

Ciò che rasserenò la poetessa fu l’incontro fortuito avvenuto su un treno con l’uomo di cui si era innamorata da giovane e di cui aveva perso traccia dopo che questo era emigrato in America Latina. Le poesie legate a questo suo amore passato diventano un diario che testimonia questi attimi di “risurrezione”.

Poiché non mi veniva nessuna parola
(la parola era “addio”, ma non riuscivo a dirla)
ti ho dato il mio silenzio
ed ho ascoltato il tuo,

 

e non è stato un vuoto, ma condivisa pienezza
e ancora gioia, mentre accettavamo,
come la terra, un nostro tempo di neve,
bianco grembo d’attesa delle future estati.

La solitudine e la sofferenza furono per la Guidacci annullate e la poesia si fece esultanza e un inno rivolto a quella gioia. Riemerge quel tratto costante della sua poetica, ovvero l’incontro con l’Altro, che assume ancora più significato in relazione alla perdita. Come se dopo quest’ultima si fosse maggiormente in grado di apprezzare ciò che arriva, o ciò che ritorna.

Alla fine dei secoli, quando
mi chiamerà un’altra voce
e proverò per la seconda volta
l’impeto di risurrezione
prego che come questa volta,
quando sei stato tu a chiamarmi,
alzandomi stupita dalla fossa
con le ossa che sentono la carne
stendersi nuovamente su di loro,
con la carne che sente
in sé di nuovo penetrare l’anima –
io possa, in quel tremendo campo
dove avrà inizio l’eterno,
fissare il primo sguardo su di te,
ritrovarti al mio fianco.

(da “Inno alla gioia”, Nardini, Firenze, 1983)

Valentina Volpi

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