Nel sud della Spagna, laddove un tempo Sergio Leone girava i suoi film spaghetti-western, oggi si estende un gigantesco Mare di Plastica. Una distesa bianchissima, visibile persino dallo spazio, eppure ignorata quasi da tutti. È comunque da qui che proviene gran parte dell’ortofrutta d’Europa: il famigerato “Mare di Plastica” esiste, e sta sulla terraferma.
A sentir parlare di “Mare di Plastica“, l’immagine che più facilmente ci viene in mente è quella delle acque della Terra che – presto o tardi – saranno invase dai nostri rifiuti, fino a sostituire l’intera popolazione di pesci e specie marine. Tali sono le previsioni per un futuro che si sta orribilmente avverando, eppure un “Mare di Plastica”, esteso su ben 40 mila ettari, esiste già, e sta sulla terraferma. Questo “Mare di Plastica” che la maggior parte delle persone ancora ignora, viene definito l’orto d’Europa: da qui provengono ogni anno 3,5 tonnellate di frutta e verdura, che vanno a riempire i reparti dei supermercati. Vi siete mai chiesti dove crescano quei pomodori “origine Spagna” che si trovano anche a gennaio sugli scaffali? Nel sud del paese infatti, intorno ad Almería, la produzione non si ferma mai: grazie a intere distese di serre, non esistono più stagioni. Ma negli abissi profondi del Mare di Plastica, si trovano – sommersi, affogati – lavoratori sfruttati e disperati, per lo più immigrati senza documenti, e un disastroso inquinamento ambientale.
Nonostante questa realtà sia ancora semisconosciuta, già il quotidiano francese Le Monde era sceso – qualche mese fa – nelle sue profondità, per intervistare gli operai e indagare la produzione dei pomodori “bio” venduti dalla grande distribuzione. A crescere sotto quei capannoni comunque – per soddisfare tutto l’anno le richieste dei consumatori nel nord e l’ovest d’Europa – anche lamponi, zucchine, melanzane, cetrioli e addirittura angurie. In soli otto anni, dalle serre spagnole 108 000 tonnellate di ortofrutta biologico hanno raggiunto il mercato. Un “bio” che tuttavia sopprime la biodiversità locale, a favore dell’avanzata della desertificazione. Così che paradossalmente, a conti fatti, quello che dovrebbe essere un metodo “più sostenibile” finisce per avere il medesimo impatto delle colture convenzionali.
Un Mare di Plastica, per coprire la moderna schiavitù
Se da un lato – dentro a quelle serre – per gli ortaggi non esistono più le stagioni, dall’altro il clima è rigidissimo per chi vi lavora. Sono circa 90 000 in totale, di cui la maggior parte immigrati senza documenti, quelli che solamente qui, coperti dai teloni di plastica bianca, riescono a guadagnare qualcosa. Ma i salari sono infimi (a volte non vengono nemmeno pagati), la concorrenza è costante (c’è sempre qualcuno più disperato di te, pronto a prendersi il lavoro in cambio dei diritti, se provi a protestare), per non parlare delle condizioni di vita terribili in cui ci si trova costretti nei pressi delle serre. I datori di lavoro lucrano sulla produzione e sulle vendite, ma “non riescono” a dar loro un alloggio adeguato: si sopravvive, nelle baracche, spesso in mancanza di elettricità e acqua potabile. In spagnolo “chabolas”, sono rifugi costruiti con la plastica e i materiali di recupero delle serre: tanto quanto è precaria la sicurezza di un impiego, altrettanto lo sono le condizioni di sicurezza. Perciò, chi non finisce intossicato dai pesticidi spruzzati sulle piantagioni, potrebbe esserlo dal fumo di uno dei frequenti incendi che scoppiano nei villaggi.
Il Mare di Plastica prosciuga le risorse della regione
Se è vero che negli ultimi anni alcuni agricoltori, per potersi forgiare del marchio “biologico”, hanno scelto di provare a ridurre il proprio impatto ambientale, e sostituire i pesticidi con l’uso controllato di insetti, sono ancora molti quelli che iniettano fungicidi e altre sostanze chimiche nel sottosuolo. In più, pare che a stravolgere l’ecosistema e l’ambiente circostante siano proprio le distese bianchissime delle serre: secondo le rilevazioni dell’Università di Almería, esse stanno contribuendo al così detto effetto albedo – per intenderci, lo stesso che si manifesta sulla superficie dei ghiacciai in presenza della neve – che riflettendo la luce solare, abbassa le temperature. E ovviamente c’è già chi vorrebbe sfruttare l’argomento, per promuovere questo del Mare di Plastica come un sistema virtuoso, da diffondere in altre aree agricole del pianeta, ad esempio la California.
Ciò non toglie comunque che all’interno – di quelle migliaia di capannoni di plastica – gli operai debbano confrontarsi con i 45° che alimentano in maniera innaturale la maturazione dei vegetali. O che i materiali di scarto di queste “fabbriche intensive di ortaggi” si riversino a inquinare le zone circostanti: è il caso, ad esempio, di un capodoglio ritrovato sulle coste spagnole con 17 kg di plastica nello stomaco.
Questo campo amaro che diventa serie tv
Campohermoso (bel campo): così si chiama uno dei principali centri della provincia di Almería; al contrario, Campoamargo (campo amaro) è il luogo immaginario in cui è ambientata la serie tv spagnola Mar de plástico, che da queste tragedie prende spunto. Forse è così che la maggior parte degli spagnoli conosce il Mare di Plastica: grazie alle indagini del sergente Aguirre sul misterioso omicidio della figlia del sindaco. La scena si apre quindi sui campi irrigati dal sangue della ragazza: ovviamente, si tratta di un episodio fittizio, un pretesto letterario, ma i conflitti interrazziali, la criminalità che si insinua fra i lavoratori disperati, sono invece concreti e reali. E c’è comunque evidentemente del “sangue”, che continua a irrigare gli sterminati orti del Mare di Plastica.
Alice Tarditi