Visionario fino al punto di leggere nel presente i segni del futuro. Marco Ferreri con Dillinger è morto, film del 1969, riesce nello straordinario tentativo di mostrare senza metafore e con pochissime ellissi temporali l’orrore invisibile della condizione unidimensionale.
Dillinger è morto: impianto teorico
Nell’ideologia della società industriale avanzata la dimensione dissenziente dell’uomo ha perso il diritto di cittadinanza. Niente passioni e slanci mossi dall’istinto. Entrerebbero in conflitto con l’obiettivo primario della società consumistica: massimizzare la prestazione produttiva.
L’uomo deve essere schiavo di questo sistema senza averne coscienza. Le libertà concesse da questa società omologante e repressiva sono in realtà concessioni per ammansire l’uomo. Che è talmente integrato nella società, organizzata secondo gli schemi e i tempi della fabbrica, da trasformarsi egli stesso in un ingranaggio, un oggetto tra gli oggetti. Vittima e protagonista del processo reificante.
Questa è suppergiù la definizione dell’uomo ad una dimensione data dal filosofo Herbert Marcuse nel suo omonimo libro del 1964. Testo a cui fa riferimento il dialogo iniziale del film di Marco Ferreri. Perché Dillinger è morto è la video anatomia dell’uomo a una dimensione. Un’opera talmente sottile e precisa da risultare incomprensibile, inutile, se non disturbante per chi è inconsapevole della propria condizione “unidimensionale“.
Dillinger è Morto: l’abisso dietro la normalità
La macchina da presa osserva le azioni di Glauco, un disegnatore industriale, nella loro intera durata. Sono le normalissime azioni di chi torna a casa dopo il lavoro. Perché dietro quella normalità, resa dalla straordinaria prova d’attore di Michel Piccoli, si nasconde la disumanizzazione programmata dell’uomo.
La colonna sonora del film è data dalle voci e dai suoni del televisore acceso, dalle canzoni in radio, dalle musiche dei filmini che sono il passatempo del dopo cena. E’ questo il sottofondo dei dialoghi striminziti, di circostanza, tra Glauco e sua moglie, tra Glauco e la cameriera.
Dietro l’apparente normalità di Glauco c’è un abisso oscuro. Una profonda solitudine, zittita con gli elettrodomestici parlanti. L’insoddisfazione personale sfogata ai fornelli e nel buon cibo. La ricerca di motivazioni, di nuovi interessi, che trova sbocco nell’attenzione maniacale e infantile verso gli oggetti. Il rapporto anaffettivo con sua moglie e il desiderio sessuale represso, che lo spingono ad amoreggiare con le immagini di altre donne.
Per chi guarda il film è come ritrovarsi difronte a uno specchio, con il compito di riconoscere i difetti dell’immagine riflessa. Ferreri chiede allo spettare di prendere coscienza di se stesso. Chiede il processo mentale inverso alla reificazione. Tornare ad essere soggetto e non più oggetto. Per riconoscere finalmente la propria schiavitù difronte alle libertà e alle opportunità fasulle, concesse dalla società industriale per controllare, reprimere le pulsioni e l’stinto.
La loro oppressione conduce Glauco ad essere una polveriera pronta ad esplodere. Accadrà grazie alla pistola che Ferreri fa apparire magicamente in scena, avvolta in un foglio di giornale con la ntizia dell’uccisione di Dillinger. Simbolo di ribellione e di libertà come il bandito americano. Glauco prima la dipinge di rosso a pallini bianchi, trasformandola in un giocattolo. E poi ne fa il suo strumento di fuga verso un finale folle, surreale. Una corsa solitaria, senza speranza. Perché il sistema da cui Glauco cerca di sfuggire si nutre del suo stesso individualismo.
Video anatomia dell’orrore unidimensionale
Il prologo
La cucina
Gli oggetti
Le immagini
La folle fuga di Glauco
Michele Lamonaca