La Manovra di Bilancio presentata dal governo riporta al centro del dibattito il sistema fiscale italiano, mettendo in evidenza le sue fragilità strutturali. Tra aliquote riorganizzate e promesse di taglio del cuneo fiscale, sorgono criticità che colpiscono i redditi medi e bassi, lasciando intatti quelli più alti. Una scelta che sembra ignorare il principio di equità e progressività, penalizzando ulteriormente chi già fatica a far fronte all’inflazione e alla stagnazione salariale.
L’attuale Manovra di Bilancio presentata dal governo Meloni sembra confermare una linea politica che privilegia le fasce di reddito più elevate, sottintendendo criticità riguardo all’efficacia del sistema fiscale italiano nel promuovere la giustizia sociale ed economica. Mentre l’esecutivo rifiuta categoricamente ogni ipotesi di tassazione patrimoniale o di incremento delle aliquote per i redditi più alti, il risultato è un sistema che, pur presentandosi formalmente progressivo, finisce per penalizzare i redditi medi e lasciare intoccati quelli elevati. Parallelamente, il mancato sostegno al salario minimo lascia l’Italia in un contesto unico in Europa, dove la povertà lavorativa continua a crescere.
Aliquote e disuguaglianze: un sistema farraginoso
Il cuore della discussione ruota attorno alla struttura delle aliquote Irpef. Attualmente, il sistema prevede tre scaglioni principali: il 23% per i redditi fino a 28.000 euro, il 35% per quelli tra 28.000 e 50.000 euro e il 43% per i redditi superiori. Tuttavia, con la nuova manovra, le aliquote si espanderanno a sette, aggiungendo complessità e aumentando le difficoltà di calcolo per i contribuenti. Questo apparente ritorno a una maggiore progressività è stato accolto con critiche, soprattutto dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb), che ha sottolineato come i redditi tra 32.000 e 40.000 euro si troveranno a pagare imposte più elevate rispetto al passato.
Questa modifica, anziché semplificare o ridistribuire in modo equo il peso fiscale, rischia di introdurre un nuovo squilibrio, penalizzando ulteriormente una fascia di popolazione già duramente colpita dall’aumento dell’inflazione e dal calo del potere d’acquisto. La domanda cruciale rimane: un sistema così complesso e privo di reale progressività può mai garantire equità sociale e fiscale? La risposta, detta da molti economisti, è negativa.
Il rifiuto del salario minimo e il ruolo del Cnel
Un altro elemento centrale della critica alla Manovra è il rifiuto del governo di introdurre il salario minimo . Nonostante le pressioni di ampie fasce dell’opposizione e dei sindacati, l’esecutivo si è trincerato dietro le obiezioni tecniche del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel), senza però fornire alcuna alternativa concreta. In assenza di linee guida o interventi significativi nella contrattazione collettiva, la situazione rimane stagnante, con i lavoratori a basso reddito che subiscono un progressivo impoverimento.
L’Italia è uno dei pochi Paesi dell’Unione Europea a non avere un salario minimo garantito, una situazione che aggrava la già ampia disparità di trattamento tra lavoratori. Al contempo, le aziende continuano a godere di significativi benefici fiscali senza alcun obbligo di reinvestire tali risorse in migliori condizioni salariali o produttive.
Il taglio del cuneo fiscale: una misura a metà
Una delle poche misure presentate come intervento diretto per migliorare il potere d’acquisto dei lavoratori è il taglio del cuneo fiscale . Tuttavia, questa politica, che prevede una riduzione dei contributi previdenziali per i redditi fino a 40.000 euro, è stata definita dall’Upb come insufficiente e potenzialmente dannosa. I dipendenti con redditi medi, infatti, potrebbero ottenere benefici minimi rispetto alle imposte aggiuntive che si troveranno a pagare a causa delle nuove aliquote.
Il sistema prevede un bonus per i redditi fino a 20.000 euro, mentre tra i 20.000 ei 40.000 euro ci sarà una detrazione fiscale decrescente. tuttavia, per circa un milione di lavoratori, i benefici saranno inferiori alle perdite derivanti dall’aumento della pressione fiscale. Le critiche si concentrano inoltre sulla mancata coerenza della misura, che sembra essere più una “mancia elettorale” che un reale intervento strutturale.
Progressività fiscale: un principio ignorato
Un autentico sistema progressivo, come suggerito dal principio costituzionale, richiederebbe una riforma organica, con regole semplici e trasparenti. Tuttavia, la direzione intrapresa dall’attuale governo va nella direzione opposta, favorendo un modello di detassazione che si rivela inefficace nel contrastare la povertà salariale e nell’aumentare il potere d’acquisto delle fasce meno abbienti.
La cultura della detassazione come soluzione a tutti i problemi economici si scontra con la realtà di un Paese dove le disuguaglianze crescono. Piuttosto che ampliare il numero delle aliquote, molti economisti suggeriscono di rafforzare la progressività, tassando maggiormente i redditi più elevati e riducendo il carico fiscale su quelli medi e bassi. Un intervento simile permetterebbe di recuperare risorse da destinare al welfare e di colpire le grandi speculazioni finanziarie, una prospettiva tuttavia respinta sia dal governo che da parte dell’opposizione.
Un dibattito necessario sul futuro del sistema fiscale
Le critiche alla Manovra di Bilancio provengono da più fronti: i sindacati, che hanno proclamato uno sciopero generale per il 29 novembre, e settori padronali che temono l’impatto delle nuove misure sui redditi medi. Tuttavia, il vero dibattito dovrebbe concentrarsi su come rendere il sistema fiscale più equo e in grado di ridurre le disuguaglianze sociali.
L’attuale impostazione non sembra rispondere a questa esigenza, lasciando aperta la domanda su quale sia il vero obiettivo del governo: proteggere i grandi capitali o costruire una società più equa?