Negli ultimi mesi si sono susseguite manifestazioni e proteste di ogni tipo, dai cortei contro la premier Giorgia Meloni in visita a Torino, a quelli pro-Palestina e contro la violenza di genere a Roma fino a quelli più recenti dei No Tav in Val di Susa. Ad accomunarle non è solo il fatto di essere delle espressioni di aperto dissenso e rivendicazioni di diritti, ma anche la reazione, spesso violenta, della polizia presente che avrebbe dovuto invece garantire sicurezza.
Manifestazioni e manganelli
Tra i casi recenti più rilevanti c’è sicuramente lo scontro che si è verificato a Torino a inizio ottobre, dove un corteo di protesta si era mobilitato contro l’arrivo della premier Giorgia Meloni al Festival delle regioni. Momenti di tensione durante la manifestazione, dove erano presenti principalmente studenti, ha portato a uno scontro violento con gli agenti di polizia presenti sul posto. Uno scontro duramente denunciato da Amnesty, secondo cui si è trattato dell’ennesimo uso della forza illegittima ed eccessiva da parte delle forze di polizia impiegate in funzioni di pubblica sicurezza sottolineando il fatto che “dialogo e tentativi di de-escalation delle tensioni sono basi fondamentali per la tutela, l’esercizio e il pieno godimento del diritto di assemblea e protesta pacifica”, cose che non si sarebbero verificate in quell’occasione, dove emergono dalle immagini dei video girati agenti che inseguono con manganelli i manifestanti in fuga, agenti che colpiscono persone disarmate e agenti che limitano il movimento del corteo impedendone lo svolgimento.
Anche a Roma, durante il corteo studentesco pro Palestina partito dalla Sapienza, si sono verificati scontri con la polizia che sono finiti con cariche e manganellate. La presenza degli agenti era giustificata dal fatto che il corteo non fosse autorizzato, ma comunque previsto. Dopo alcune cariche in cui gli studenti sono stati fermati a suon di manganello, sul posto sono arrivati anche blindati che hanno isolato circa 200 studenti. Dopo una lunga trattativa, il corteo è stato sbloccato.
Anche il 25 novembre, in occasione della manifestazione organizzata da Non Una Di Meno per il contrasto alla violenza di genere, tensioni sono degenerate davanti la sede di ProVita e Famiglia. Dopo il lancio di alcuni fumogeni e bottiglie, gli agenti in tenuta antisommossa hanno subito respinto dei manifestanti, anche questa volta, con i manganelli e a rimanere ferite sono state proprio alcune attiviste.
Non meno rilevanti sono stati i fatti degli ultimi giorni a Torino, dove un cordone della polizia avrebbe impedito agli attivisti No Tav di salire sul treno diretto a Susa. Il fatto che alcuni non avessero il biglietto, come testimoniato dagli agenti, sicuramente non giustifica le cariche nei confronti dei manifestanti e la soppressione di due treni della stessa tratta. Come ha dichiarato la consigliera Sara Diena al Corriere di Torino, nonostante il personale di Trenitalia avesse appena terminato il controllo dei biglietti delle persone a bordo, dopo quasi due ore dalla partenza è stata data l’indicazione ai manifestanti di spostarsi su un altro binario, ma si sono ritrovati davanti un muro di scudi antisommossa. “Questa volta la situazione di tensione è sfociata in due cariche contro i manifestanti, colpiti e feriti dalle manganellate” spiega.
Sicurezza o repressione?
In un Paese come l’Italia, in cui i casi di abusi della polizia in carcere, nelle caserme o nelle strade sono ben noti, il permanere del diffuso ricorso ai reparti antisommossa non sempre giustificati nell’utilizzo della forza sembra essere un problema che bisogna monitorare maggiormente e che pretende una risposta seria dalla politica.
Anche se l’utilizzo della forza da parte della polizia è regolamentato da leggi, ci sono casi provati in Italia in cui agenti hanno pesantemente abusato dei loro poteri: pestaggi durante manifestazioni e eventi sportivi fino ad arrivare a veri e propri omicidi, ma anche casi di torture, lesioni e abuso d’ufficio.
Stupisce allora il nuovo, severissimo, “pacchetto sicurezza” approvato dall’attuale governo che include tre nuovi disegni di legge che prevedono nuovi reati, aumento delle pene e che permetterebbe agli agenti fuori servizio di girare armati. Un pacchetto che vuole dare più tutele alle forze dell’ordine e limitare azioni di dissenso, come le rivolte in carcere e i blocchi stradali. E sorprende allora anche la proposta del partito della Premier di abrogare il recentissimo reato di tortura, introdotto nel 2017, e che rappresenta un aggravante se compiuto da pubblici ufficiali (per i quali è prevista una reclusione da 5 a 12 anni) poiché limiterebbe l’operato della polizia in situazioni in cui sarebbe legittimo l’uso della forza, ma di fatto, garantirebbe una scappatoia agli agenti per l’impunità.
Le associazioni come Antigone e Amnesty si sono fortemente opposte alle nuove proposte del governo, definite come una tragica semplificazione della nostra società attraverso un inutile e ingiusto inasprimento del modello di repressione penale e carceraria: “la sicurezza è una cosa seria e non può essere declinata solo in termini di proibizioni e punizioni. Il pacchetto sicurezza del Governo, che fa seguito alle norme già approvate su rave, minori e migranti, è una forma di strumentalizzazione delle paure delle persone e di divisione manichea della società in buoni e cattivi”, scrive Antigone.
Si torna alle vecchie questioni legate alle forze di polizia come l’uso indiscriminato della violenza, poca trasparenza, impunità e subordinazione al potere politico.
Il continuo ricorso delle forze di polizia alla riduzione a nemico di certi attori spesso appartenenti a classi discriminate e deboli ha portato a mettere da parte il discorso sulla responsabilizzazione e sulla smilitarizzazione dei corpi di polizia in cambio delle retoriche basate sulla sicurezza, dimenticando forse cosa voglia dire, in uno stato democratico, la figura del pubblico ufficiale al servizio dei cittadini.
Secondo Vincenzo Scalia, autore del libro Incontri troppo ravvicinati? Polizia, abusi e populismo nell’Italia contemporanea, le disuguaglianze sociali, economiche, razziali e di sesso hanno portato le forze dell’ordine ad assecondare e riprodurre la distinzione tra classi “pericolose” e non, portando ad una inevitabile contraddizione tra il mantenimento dell’ordine pubblico e le pratiche repressive che spesso degenerano in episodi tragici.
L’idea di colpevolizzare i deboli al punto da condurre una guerra contro di loro si nasconderebbe dietro la scusa di una maggior sicurezza richiesta dai cittadini, che ha portato a ignorare qualsiasi tipo di normativa garantista e a creare un clima di repressione soprattutto verso soggetti deboli, e dove provvedimenti di contrasto alle disuguaglianze come il reddito di cittadinanza vengono considerati nemici da abbattere.