Ieri sera si è svolta una grande manifestazione a Tel Aviv, in Israele: un evento senza precedenti che ha scosso il tessuto sociale e politico dello Stato. Decine di migliaia di cittadini hanno riempito le piazze della città per esprimere la loro voce e le loro preoccupazioni riguardo alla situazione politica e al conflitto in corso. In questo contesto di crescente tensione e frustrazione, la protesta ha assunto un significato profondo, rivelando le divisioni e le preoccupazioni che permeano la società israeliana. In particolare modo, la manifestazione a Tel Aviv ha richiesto a gran voce le dimissioni di Netanyahu, ormai sempre più isolato e con pochissimo supporto popolare. Ci sono stati poi numerosi scontri con le forze dell’ordine, che hanno portato a decine di feriti e qualche arresto.
La manifestazione a Tel Aviv: la voce della popolazione
Nelle strette strade di Tel Aviv, ieri sera, si è svolta una dimostrazione senza precedenti, con decine di migliaia di persone che hanno invaso le piazze per esprimere le loro preoccupazioni e richieste. Secondo gli organizzatori, più di 100.000 persone hanno preso parte alla manifestazione a Tel Aviv, marcando un punto di svolta nella tensione politica in Israele.
I manifestanti sono scesi in piazza chiedendo principalmente le dimissioni del loro Presidente, primo colpevole di genocidio del popolo palestinese. La situazione, ieri sera, è poi peggiorata con un’escalation di violenza tra scontri, incendi e arresti. Oltre alle dimissioni, la manifestazione a Tel Aviv ha chiesto anche ulteriori accordi per il rilascio degli ostaggi dal 7 ottobre.
Le richieste dei manifestanti spaziano dall’immediato rilascio degli ostaggi fino alle dimissioni del governo guidato da Benjamin Netanyahu e la richiesta di elezioni anticipate. La protesta non è stata priva di scontri con le forze dell’ordine, con almeno quattro arresti e un numero imprecisato di feriti. L’uso della forza da parte della polizia ha sollevato ulteriori critiche e alimentato l’indignazione dei manifestanti.
Il peso della guerra: sei mesi di conflitto
L’atmosfera di protesta è stata alimentata da sei mesi di guerra e tensione ininterrotta. L’attacco del 7 ottobre 2023 ha dato il fatidico pretesto a Israele di continuare e incrementare una delle guerre più lunghe e distruttive nella storia dello Stato sionista. Con l’obiettivo di distruggere Hamas, in questi sei mesi si contano più di 33 mila morti in Palestina, di cui un terzo sono minori – secondo le fonti dell’ONU e del Ministero della Sanità di Gaza.
Il dramma del genocidio palestinese è sotto gli occhi di tutti e il governo sionista e di estrema destra di Benjamin Netanyahu, nonostante non goda più del sostegno popolare e “democratico”, continua a perpetrare morti e devastazione, con l’unico disegno di eliminare la Palestina dalla Terra.
Nonostante ancora molti degli israeliani sostengano la guerra, molti altri hanno cominciato a discostarsi dal modus operandi, come si è potuto vedere dalla manifestazione a Tel Aviv di ieri sera. Questa è una guerra senza un reale piano, in cui non si vede la luce della pace. E se veramente esistesse, sarebbe una pace ingiusta, con un vincitore e un vinto, un usurpatore e un usurpato, un carnefice e la sua vittima.
Bilancio del conflitto: vittime e isolamento
La situazione umanitaria nella Striscia di Gaza è diventata sempre più critica, con una grave carenza di cibo, acqua e assistenza sanitaria. Nel frattempo, il governo di Netanyahu si trova sempre più sotto pressione, con le proteste interne che si moltiplicano e l’isolamento internazionale che si aggrava.
Israele è sempre più solo: anche in Europa, ci sono paesi che hanno messo in discussione tutti i sostegni economici e militari che sono stati inviati in Medio Oriente dal 7 ottobre. È il caso della storica alleata Gran Bretagna, fortemente critica e consapevole del genocidio in corso. Continua però l’ingente e quanto mai infinito sostegno che Joe Biden ha promesso a Israele: gli Stati Uniti hanno rifornito infatti Netanyahu poche ore prima della decisione dell’ONU sul divieto della vendita di armi.
Intanto, i piani di pace sono menzionati solamente a parole, senza un piano adeguato e specifico per fermare il genocidio a Gaza. Netanyahu ha rivendicato più volte, anche attraverso i suoi portavoce, di voler continuare l’offensiva a Rafah. Di conseguenza, è evidente come ogni forma di negoziato con la Palestina o l’Egitto siano soltanto un’illusione.
La ricerca di una soluzione: incertezza e tensione
Nonostante i negoziati in corso al Cairo, le prospettive di una soluzione al conflitto rimangono incerte. Le richieste di Hamas per un cessate il fuoco permanente e il ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza incontrano la resistenza di Israele, che sembra intenzionato a proseguire con l’offensiva. Nel frattempo, il ritrovamento del corpo di un ostaggio israeliano aggiunge ulteriore pressione sul governo Netanyahu, con le famiglie delle vittime che hanno chiesto un’accelerazione nelle trattative per il loro rilascio.
Questo è stato un altro motivo di protesta nella grande manifestazione a Tel Aviv: il ritrovamento del corpo dell’ostaggio ha sollevato un’ondata di rabbia nei confronti della totale assenza delle relazioni diplomatiche e internazionali. Sono infatti le stesse istituzioni che aspirano solo al potere e alla vittoria incondizionata a danno delle vite dei civili.
Il genocidio continua sotto gli occhi di una comunità internazionale incapace di agire
La manifestazione a Tel Aviv è stata un’altra occasione per fare appello alla comunità internazionale e per chiedere la fine di un conflitto che ha già causato troppo dolore e sofferenza. Anche gran parte della popolazione israeliana ormai ha adottato un’altra prospettiva politica per trovare una via d’uscita da questa crisi, nella speranza di un futuro di pace e prosperità con il popolo palestinese.
Intanto, siamo al 138esimo giorno di guerra e Netanyahu continua a rifiutare ogni richiesta della resistenza palestinese; inoltre, per la fine del Ramadan è stata annunciata l’invasione a Rafah via terra. Secondo i dati rilasciati da Hamas – storicamente sempre più attendibili di quelli pubblicati dall’IDF – le morti in Palestina sono salite a 33.137.