Andrea Umbrello
Direttore Editoriale di Ultima Voce
Il mandato d’arresto per Netanyahu e Gallant emesso dalla Corte Penale Internazionale (CPI) accende il dibattito sulla giustizia internazionale. Mentre molti si soffermano sulle polemiche politiche interne, quello che davvero risalta è la difficoltà di guardare in faccia la realtà: un mondo che sembra accettare crimini di guerra senza mai chiedere giustizia. La reazione della destra italiana, con accuse infondate di antisemitismo, rivela quanto sia arduo affrontare le verità scomode, preferendo ignorare le sofferenze quotidiane e le continue violazioni dei diritti umani che segnano il conflitto israelo-palestinese.
La notizia del mandato di cattura internazionale emesso dalla Corte Penale Internazionale (CPI) contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant rappresenta un momento cruciale per il dibattito sui diritti umani e sulla giustizia globale. Tuttavia, la reazione della destra italiana – e non solo – dimostra quanto sia difficile affrontare questo tema senza scadere in retoriche vuote e contraddittorie.
L’accusa principale mossa dai detrattori è che i pacifisti, così come gli attivisti favorevoli a questa decisione, sarebbero colpevoli di antisemitismo o, peggio, di simpatie verso il fondamentalismo islamico. Un’accusa grave e priva di fondamento, che tenta di screditare chi da anni chiede giustizia e una soluzione pacifica per il conflitto israelo-palestinese.
Ma quali sono le implicazioni di questa decisione e perché è giusto sostenerla? Analizziamo i punti centrali della questione.
La decisione della CPI: un passo storico
Il mandato di arresto per Netanyahu e Gallant non nasce dal nulla. La CPI, spesso accusata di essere inefficace o troppo politica, ha compiuto un passo audace, accusando due figure di spicco della politica israeliana di crimini di guerra. Questi crimini includono, tra l’altro, operazioni militari sproporzionate che hanno causato stragi di civili palestinesi, la distruzione di infrastrutture essenziali e la perpetuazione di una politica di occupazione che viola sistematicamente il diritto internazionale.
Sostenere questa decisione significa riconoscere che nessuno, nemmeno i leader delle grandi potenze regionali, può essere immune alla giustizia. Si tratta di un segnale forte, che ribadisce la necessità di un equilibrio di responsabilità e del rispetto delle convenzioni internazionali.
La reazione della destra: moralismo ipocrita e retorica del doppio standard
Non sorprende che gran parte della destra, non solo italiana, abbia reagito con indignazione alla notizia. Le argomentazioni, tuttavia, si rivelano spesso superficiali e, in alcuni casi, paradossali. Una delle critiche più ricorrenti riguarda la presunta mancanza di equilibrio: si accusa infatti la CPI e i pacifisti di non dare lo stesso peso ai crimini di Hamas.
Questa posizione, tuttavia, ignora alcune verità fondamentali. Hamas, per quanto possa anche essere responsabile di azioni violente e condannabili, non gode del supporto internazionale che Israele riceve. Inoltre, i palestinesi hanno accettato la giurisdizione della CPI, aprendo alla possibilità che i loro leader siano processati. Israele, invece, rifiuta questa giurisdizione, scegliendo la strada dell’eliminazione fisica dei nemici – una politica che non solo è moralmente discutibile, ma spesso si traduce in massacri di civili.
L’equidistanza invocata dalla destra non tiene conto delle profonde asimmetrie di potere tra Israele e Palestina. Equiparare i due contesti significa negare la realtà di un’occupazione militare decennale e della sistematica violazione dei diritti umani da parte di Israele.
Perché è giusto sostenere il mandato della CPI?
La decisione della CPI ha un valore simbolico e pratico. Da un lato, rappresenta un riconoscimento ufficiale delle sofferenze del popolo palestinese e della necessità di un processo giusto e trasparente per tutti i crimini commessi. Dall’altro, spinge la comunità internazionale a prendere posizione su una questione troppo spesso ignorata.
Sostenere questa decisione non significa ignorare quelli che molti definiscono crimini di Hamas, ma ribadire che il diritto internazionale deve essere rispettato da tutti, a partire dagli stati che si autodefiniscono democratici. Israele, con il suo status di alleato privilegiato dell’Occidente, deve essere chiamato a rispondere delle sue azioni, proprio perché gode di un potere e di una legittimità che Hamas non ha.
Un dibattito che riflette le contraddizioni italiane
Gli italiani sono divisi di fronte a questa notizia, rivelando le profonde crepe che attraversano il nostro dibattito politico e le passioni che animano le diverse fazioni. La destra, spesso pronta a criticare le istituzioni internazionali quando toccano gli interessi dei suoi alleati, si dimostra incapace di riconoscere l’importanza di un sistema di giustizia globale.
Accusare i pacifisti di antisemitismo o filoislamismo significa distorcere il dibattito e impedirne una reale evoluzione. La critica alle politiche di Israele non è, né deve essere, un attacco alla comunità ebraica, ma una presa di posizione contro politiche che violano sistematicamente i diritti umani.
Una strada lunga, ma necessaria
Il mandato contro Netanyahu e Gallant è solo l’inizio. La strada verso la giustizia è lunga e piena di ostacoli, ma ogni passo in questa direzione è fondamentale.
In Italia, è necessario abbandonare le retoriche polarizzanti e impegnarsi in un dibattito più consapevole. Sostenere il mandato contro Netanyahu e Gallant significa schierarsi dalla parte della giustizia, della pace e del diritto internazionale. E questo non può essere oggetto di compromessi.