Pittore russo che rivoluzionò il modo di concepire il “realismo”in pittura, esordì all’iniziò del Novecento con delle opere aderenti alla tendenza cubofuturista diffusa all’epoca. La sua personalità controversa lo porterà a superare questa visione stilistica e ad esasperare le forme al punto di ridurle alla loro essenza primaria. Andare oltre al fine di recuperare il senso originario delle linee, figure, punti.
Malevič con gli strumenti della geometria pura, a partire dal quadrilatero, e i residui della concezione spaziale futurista, eseguì delle opere innovative, senza precedenti nel panorama artistico. Egli liberò la realtà visiva dal riferimento alle forme oggettive. Le sue forme geometriche fluttuavano nello spazio, a volte incontrandosi, toccandosi.
Come si può notare in “Quadrato rosso”, i parametri prospettici erano sovvertiti e non rispettavano i precetti geometrici convenzionali. Vigeva un’irregolarità nella struttura compositiva, assi e parallele non rispettate, in modo da provocare nello spettatore un senso di smarrimento. L’effetto era come di un lento spostarsi delle figure, i cui lati divergevano dalla superficie quadrata del dipinto e da sé stessi.
Il suo lavoro era suffragato da una personale visione filosofica, una ratio. Egli sosteneva che il “quadrato fosse la creazione della ragione intuitiva”. Desiderava giungere alla “creazione non oggettiva”, allo “zero assoluto delle forme”. Il suo orientamento artistico lo farà approdare al “realismo”, inteso non nel senso stretto del termine, ma come imago di purezza e linearità, che percepiva e accoglieva il dato reale.
A colpo d’occhio i suoi quadri apparivano semplici, elementari nella scelta figurativa, come ad esempio in “Quadrato nero”.
Nell’anno 1913, nel mio disperato tentativo di liberare l’arte dalla zavorra dell’obiettività, mi rifugiai nelle forme quadrate ed esposi un quadro che consisteva in nient’altro che un quadrato nero su sfondo bianco. I critici e insieme a loro il pubblico, sospirarono: “Tutto ciò che abbiamo amato è stato perso. Siamo in un deserto… Davanti a noi non c’è altro che un quadrato nero su sfondo bianco!”.
Mentre la struttura compositiva e concettuale alla base si rivelava molto complessa. Il quadrato nero simbolizzava la prima forma di espressione della sensibilità non oggettiva, mentre lo sfondo bianco rappresentava il Nulla, ovvero ciò che era al di fuori del sensibile. L’artista desiderava cogliere la realtà, sublimarla, rappresentarla, annichilendo la forma fino all’estremo. Da qui si sviluppava la sua idea di “Suprematismo”, inteso come sovranità della sensibilità pura nell’arte, che svalutava la rappresentazione oggettiva e avvalorava la pura espressività della materia.
Per il suprematista i fenomeni visivi del mondo oggettivo sono di per sé, senza senso; la cosa importante è sentire.
Nel vasto spazio del riposo cosmico ho raggiunto il mondo bianco dell’assenza di oggetti, manifestazione del nulla svelato.
Come egli stesso sosteneva nello “Specchio suprematista” (1923): “la conoscenza dello zero era pervenire alla conoscenza di Dio, della Bellezza, della Natura”.
La sua libertà in campo pittorico rispecchiava il suo affrancamento dalle imposizioni dettate dallo Stato e dal regime in campo artistico. Predicava un’arte indipendente dalla politica e dalle ristrettezze concettuali conseguenti. Fautore di una “democratizzazione della cultura”, osteggiata dal governo sovietico che riteneva la sua arte astratta inadatta a suffragare gli ideali politici, mentre considerava più consono un “realismo socialista”, immediato propulsore di messaggi facilmente accessibili all’opinione pubblica. Negli anni trenta, egli si piegherà alle direttive del regime, dopo la sua prigionia, e il suo iter artistico prenderà la via del figurativismo e della ritrattistica.
Costanza Marana