Fino a non molti anni fa, se si apparteneva al sesso femminile e si aveva la sfortuna di nascere povere o senza una famiglia, in alcune zone del Regno Unito era molto probabile che il proprio destino fosse segnato dalla plurisecolare tradizione di venire affidate alle Magdalene houses.
Queste istituzioni, statali ma gestite da suore protestanti e cattoliche, sorsero sotto il regno di Elisabetta I (la prima in Inghilterra nel 1576, la seconda in Irlanda nove anni più tardi, ma il modello fu poi mutuato anche da altri ordinamenti, per lo più di origine protestante), inizialmente allo scopo di accogliere e fornire assistenza a donne che, difettando di risorse economiche, si dedicavano alla prostituzione. Il nome, del resto, è piuttosto eloquente: “Magdalene” come Maria Maddalena, che la tradizione cristiana vedeva come una peccatrice redenta dall’incontro con Gesù.
Il fine ultimo, al pari di quanto accadeva per delinquenti e fanciulli poveri nelle work houses di dickensiana memoria, era quello di rieducare le “ospiti” al fine di reinserirle poi nella società, che altrimenti le avrebbe rifiutate per i loro trascorsi. Per questo, in un primo momento la durata del soggiorno al loro interno doveva essere piuttosto breve; in seguito, però, la permanenza si allungò, arrivando spesso a coincidere con l’intera vita delle “maggies” (come venivano definite le ospiti).
Ciò in ragione di una distorsione della finalità originaria (purtroppo comune anche alle già citate work houses): da luoghi di accoglienza le Magdalene houses divennero, infatti, luoghi di ghettizzazione, atti a segregare persone la cui condotta di vita non era in linea col rigore e l’irreprensibilità richiesti ad una donna all’epoca. Tutte coloro che la società non voleva accettare venivano recluse all’interno di questi istituti, nascoste in modo da non rovinare l’apparenza di una società ordinata ed assolutamente omologata all’interno di rigidi schemi morali: fu così che la platea delle “accolte” fu ampliata fino a ricomprendere non solo prostitute od orfane, ma anche figlie illegittime, malate mentali o donne considerate “immorali” (così ritenute per i più disparati motivi: perché troppo brutte o troppo avvenenti, perché violentate o perché magare ree di aver generato figli al di fuori del vincolo matrimoniale).
Secondo il cosiddetto Mc Alesee Report, un’indagine condotta dall’omonimo parlamentare irlandese con riferimento alle case Magdalene ubicate nel suo Paese ed attive dal 1922, solo il 16,4% degli ingressi avveniva su iniziativa delle interessate, l’11,2% era indotto dalle famiglie d’origine, mentre la restante parte era composta si basava su trasferimenti da strutture analoghe o da riformatori, nonché su indicazioni di membri del clero. Infine, un piccolo campione di donne veniva ricoverato in queste strutture su raccomandazione medica- in alcuni casi in ragione di infermità mentali.
All’interno delle Magdalene houses, l’espiazione veniva realizzato mediante lo svolgimento di estenuanti lavori di lavanderia (da cui l’ulteriore denominazione di Magdalene laundries) e cucito; il presupposto dichiarato era quello di consentire alle maggies di apprendere un mestiere che sarebbe loro tornato utile al di fuori. Tuttavia, da un lato, nei fatti si trattava di sfruttamento di manodopera gratuita; dall’altro, buona parte delle donne recluse non ebbe mai la possibilità di mettere a frutto quanto appreso all’esterno, perché- come anticipato- rimase nell’istituto per tutta la vita.
E’ ancora il Mc Alesee Report– non sottacendo il fatto che la sorte di molte maggies sia tuttora avvolta nel mistero- a riportare che solo il 7,1% delle donne internate lasciò la propria casa Magdalene perché aveva trovato lavoro; un pari numero fu dimesso, l’1,9% scappò, il 23% abbandonò il percorso di espiazione ed un numero poco inferiore tornò alla famiglia di origine, mentre il 18,4% non uscì mai e la restante parte continuò il proprio internato in istituti analoghi od in ospedali.
Peraltro, la vita all’interno delle laundries era tutt’altro che felice: le penitenti, oltre che essere sottoposte a massacranti turni di lavoro, erano costrette a subire rigide punizioni corporali e pesanti vessazioni psicologiche (sia per gli errori che commettevano all’interno degli istituti, che per la condotta precedente al soggiorno nelle case Magdalene), che potevano spaziare dall’isolamento alla privazione dei pasti. Molte, inoltre, non venivano informate della ragione per cui erano state internate, vivendo nel costante terrore di essere costrette a rimanervi per sempre. Qualunque contatto con l’esterno veniva vissuto sotto la stretta sorveglianza delle suore o delle loro ausiliarie. Inoltre, non sono mancati casi di abusi sessuali a danno di alcune maggies (anche se i rapporti ufficiali, al riguardo, sembrano evidenziare comportamenti solo latamente legati alla sfera sessuale, come baci rubati o l’uso di espressioni volgari).
La vicenda delle Magdalene houses ha captato l’attenzione dei media a partire dal 1993, quando le case erano ancora attive e, al di fuori di un convento, fu rinvenuta una fossa comune contenente i corpi di ben 155 penitenti senza nome. Da quel momento, su richiesta della Commissione contro le torture dell’ONU, furono avviate una serie di investigazioni, che hanno portato, nel 2013, alle scuse del governo irlandese nei confronti delle ex penitenti.
La Chiesa, dal canto suo, si è difesa, asserendo che una certa rigidità educativa era tipica dell’epoca, nonché puntualizzando che nessuno degli abusi documentati era avvenuto ad opera di suore. Le suore della Misericordia irlandesi, per loro parte, che avevano gestito un gran numero di Magdalene houses, hanno presentato scuse incondizionate.
Anche il cinema si è interessato di questa triste storia, contribuendo a farle raggiungere risonanza a livello mondiale, specie col film Magdalene, diretto da Peter Mullan e vincitore del Leone d’oro del 2002 (che trovate recensito qui:http://www.ultimavoce.it/magdalene-film-peter-mullan/).
L’ultima casa Magdalene è stata chiusa nel 1996; questo, però, non pone un punto fermo a quest’atroce storia, della quale probabilmente- a causa anche del sentimento di vergogna e riprovazione ormai radicato nelle ex penitenti, ma anche della reticenza delle istituzioni- non si verrà mai a sapere tutto.
Lidia Fontanella