“Mafia e appalti” torna a galla ma la storia è nell’abisso

mafia e appalti

L’inchiesta “Mafia e appalti” viene riaperta dopo trent’anni

Se c’è qualcosa di più avvilente delle stragi di mafia è la mancanza di verità che continua a persistere anche dopo decenni. Non solo, perché tuttora alcuni soggetti gettano sabbia su questa ricerca. Facile via per depistare un Paese di smemorati, questo almeno il giudizio di un vecchio giornalista di cui riporto una massima: “L’Italia è un paese di contemporanei, senza antenati né posteri, perché senza memoria”.

Sermoni a parte, veniamo alla cronaca. Ad oggi, non conosciamo gli “alti” mandanti delle stragi di mafia degli anni Novanta. Conosciamo solo i viddani come Riina e Provenzano, mentre delle toghe e dei colletti non sappiamo ancora nulla. S’inserisce in questa ricerca la riapertura di “Mafia e appalti” da parte della procura di Caltanissetta.

La storia di “Mafia e appalti”

L’inchiesta “Mafia e appalti” è un dossier che la Procura di Palermo delegò ai carabinieri del Ros, con il compito di proseguire le indagini sul caso. Se ne interessarono anche Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi. L’obiettivo era quello di definire il legame tra la mafia e gli appalti pubblici. Secondo questa pista, gli appalti illeciti erano un nodo cruciale per l’economia di Cosa Nostra, insieme alla droga e alle estorsioni. “Mafia e appalti” poteva fare da cartina al tornasole agli inquirenti, per muovere le indagini da Cosa Nostra alla politica, passando per l’imprenditoria.

Il fascicolo venne archiviato, solo in parte, dalla Procura di Palermo, fermo restando la validità di quelle teorie. “Mafia e appalti” però non si fermò lì, perché le indagini proseguirono e ci furono gli arresti. Infine veniamo ad oggi: la Procura di Caltanissetta ha in questi giorni riaperto le indagini, sentendo anche le prime persone, molte di loro tenute segrete.

Il quarto potere colpisce l’inchiesta

Senza entrare troppo nel merito, l’inchiesta “Mafia e appalti” riscontrò diversi ostacoli durante il suo corso d’indagini. Uno di questi furono le accuse di alcuni giornali alla Procura di Palermo per aver archiviato l’inchiesta. Eppure ciò non corrisponde al vero, dato che era stata chiesta l’archiviazione solo per alcuni soggetti coinvolti. E poi la seconda accusa, ovvero quella secondo cui la Procura di Palermo avrebbe omesso alcuni indagati eccellenti negli stralci d’indagine. Tuttavia quegli indagati non erano ancora noti ai titolari del caso. Sarà solo mesi dopo che quelle intercettazioni arriveranno da un’altra procura. Ne parleremo meglio dopo. In ogni caso, la Procura di Palermo ricevette false accuse che ne intaccavano la credibilità. Il quarto potere si fece sentire.

I fogli dimenticati dal Ros

Come scritto prima, la Procura di Palermo aveva delegato le indagini su “Mafia e appalti” ai carabinieri del Ros.  E qui avvenne una “dimenticanza”, alla quale però manco un pargolo ai primi anni di scuola potrebbe mai credere, sostenendo in modo saggio che i compiti si fanno per tempo. Infatti, il Ros non manda alla Procura di Palermo dei documenti molto importanti, che contenevano intercettazioni abbastanza delicate, per usare un eufemismo. Tra queste, anche alcune di Salvo Lima, che la mafia ammazzerà nel marzo del ’92. Il diccì era il più potente in Sicilia, e pure il pezzo da novanta della corrente andreottiana sull’isola. Ecco, chiarito ciò, s’intuisce che un materiale del genere avrebbe alzato di molto la soglia dello stupore.

Ebbene, queste intercettazioni arrivarono alla Procura di Palermo solo dopo la morte di Falcone a maggio e Borsellino a luglio del ’92. E le intercettazioni erano del ’90, non so se. . . E qui l’altra cosa incredibile, perché nel ’91 il Ros aveva già fornito un’informativa alla Procura di Palermo, omettendo però le intercettazioni del ’90. Qua non è che parliamo di qualche nota vocale, ma centinaia di pagine d’inchiesta! Comunque, i fatti di cui sopra hanno come fonte le dichiarazioni di Roberto Scarpinato, ex Procuratore generale di Palermo, al processo sul depistaggio di via D’Amelio. Trovate la registrazione dell’udienza a questo link.

La Madonna di Milano appare anche in Sicilia

Vittorio Feltri ha spesso raccontato che negli anni Novanta il giudice Antonio Di Pietro veniva anche chiamato “la Madonna”. Il terremoto Tangentopoli fu per molti italiani l’arrivo di un miracolo in cui tutti speravano per sgominare la corruzione sistemica della Prima Repubblica. E chi lo nega recita nella banda degli onesti, come quando Totò risponde all’ispettore corrotto: «Signor ragioniere Casoria, al mio paese questo si chiama peculato». I tempi erano maturi, ma non fu Milano la scintilla dell’incendio.

Già, perché “Mani Pulite” è nata dalle indagini di Giovanni Falcone sul legame tra, per l’appunto, mafia e appalti. Il cerchio si chiude. Tra l’altro, nell’intervista che trovate a questo link, Di Pietro dichiara pure che era stato anch’egli avvisato di rischiare grosso per quell’inchiesta. Al giudice molisano però non toccò la stessa tragica sorte di Falcone e Borsellino. Di seguito riporto una parte delle parole pronunciate da Di Pietro ai ragazzi di Campobasso. Trovate anche quest’altro articolo a questo link.

Ero ai funerali di Giovanni Falcone. Borsellino mi si avvicinò e mi disse: «Tonì, facciamo presto, abbiamo poco tempo»

La cricca degli affaristi

La vicenda mafia e appalti è dove convergono molti affari e diversi interessi. Nonché l’evoluzione della mafia che Falcone profetizzava. Prendiamo in esame alcuni concetti del libro “Cose di Cosa Nostra” scritto dal giudice con la giornalista francese Marcelle Padovani. S’invita il lettore a leggere il testo completo, al fine di evitare pillole errate di un pensiero così limpido e interessante. Parlando degli affari mafiosi, Giovanni Falcone scriveva che Cosa Nostra era quotata in borsa, e non più solo complice dei suoi affari. D’altronde, questo il giudice lo sapeva meglio di altri, i grandi capitali hanno sempre uno sbocco. Ecco perché Cosa Nostra aveva iniziato anni addietro a guardare verso Milano. E a  puntare meno sui crimini di strada come pizzo ed estorsioni. Tuttavia, ciò significa che la mafia è ormai parte del sistema. Così facendo la concorrenza ne risente, perché minacciata dai metodi mafiosi degli uomini d’onore.




Il regno dei gattopardi

Insomma, le bombe e gli spari non si sentono più, o quasi, e tutto sembra più tranquillo. Sembra, perché purtroppo la mafia ha forse vinto, almeno in parte, sullo Stato. Ci sarebbero tante altre storie da narrare, come l’arresto di Riina, definito da molti una pantomima. Oppure dei giornalisti che rinnegano il fatto storico della trattativa Stato-mafia, nonostante lo confessi un imputato del processo. Scienziati di retorica di certe redazioni evaporano alla solo lettura del titolo di questo video. Ma questo è ieri, veniamo all’oggi. Cito per istinto quello studio fatto in Veneto per rilevare le infiltrazioni mafiose. Il risultato che emerge è sconvolgente: è la regione del nord che ne ha di più. Alla faccia degli stereotipi leghisti. I timori ora vanno ai miliardi del PNRR, ghiotto bottino per le mafie d’Italia. Speriamo bene. . .

Se poi vogliamo pure parlare del piano politico rischiamo lo sgolo vocale. Fa un po’ impressione camminare per Palermo e avvistare volantini elettorali con sopra il “nuovo” scudo crociato targato diccì. Pupi, panciuti e padrini, che non sono souvenir siciliani ma fatti di cronaca. Per fortuna però c’è anche chi non ha mai smesso di chiedere giustizia, o perlomeno che sia fatta luce sulla storia recente. Sì perché qui è di storia che si parla, e sapere di mafia è questione di cultura. Nicola Gratteri, minacciato più volte di attentato, ha lanciato un urlo di rabbia in diverse occasioni, attaccando il governo Draghi prima che l’ex premier citasse la mafia nel suo discorso alle camere. A questo link trovate la puntata del Costanzo show dove Gratteri è stato invitato a parlare di mafie.  Se volete skippare alla sua entrata basta andare al minuto 58 e 40 secondi circa.

Il giardiniere di via D’Amelio

Voglio chiudere questo articolo con un aneddoto personale della scorsa settimana. Ero andato in Sicilia con due miei amici per passare dei giorni a Palermo. Arrivati a Punta Raisi si avvistano qua e là foto e disegni di Falcone e Borsellino, ai quali è anche dedicato l’aeroporto stesso. Usciti da lì prendiamo un bus per andare a Palermo. Su quella cartolina che è la Mazara del Vallo c’è anche il punto dove avvenne la strage di Capaci, dove la pelle d’oca è inevitabile. Anche a Palermo ci sono loro, Giovanni e Paolo, sembrano quasi dei santini. Nella stessa città però ci sono anche i manifesti del collettivo Off-live che fanno da eco alle cose non dette.

Prima di andare in Sicilia mi ero promesso che sarei passato a via D’Amelio, e così è stato. Abbiamo camminato parecchio, passando anche dall’Ucciardone, ma ne è valsa la pena. Quando arrivi a via D’Amelio capisci quanto vile fosse quella bomba, perché il bersaglio non era un luogo di Stato bensì una strada qualunque. Facciamo due passi e siamo già là, dove nel 19 luglio del ’92 una bomba uccise Borsellino e la sua scorta. Ora in quel punto c’è un albero, con tante memorie appese sui rami. Stiamo leggendo alcune dediche, quand’ecco accostarsi una macchina con il finestrino abbassato. Il conducente ci guarda e dice: «Sapete che non sono morti solo loro due?»

In verità non ce l’aveva con noi, ma con un gruppo di quattro persone che erano là per lo stesso nostro motivo. Per comodità quel signore lo chiamerò il giardiniere di via D’Amelio. Il suo rimprovero era rivolto a tutti coloro che vanno a via D’Amelio solo per fare pellegrinaggi da calendario. «Ma non ci pensate a loro?» , dice guardando le palazzine, «Queste persone sono traumatizzate». A quel punto il gruppetto replica dicendo che conoscevano Emanuela Loi, la giovane agente di polizia uccisa nell’attentato.

«Voi non sapete niente. Venite qua pensando di trovare chissà cosa. Io queste strade le conosco, qua non è cambiato nulla. Io non conoscevo Emanuela, mi basta sapere che stava solo facendo il suo lavoro. Questi se li sono venduti. Gli eventi, le fiaccolate, è tutto uno show business. Non serva a nulla». Sostiene anche che parlare di Falcone e Borsellino ai bambini è come lavare loro il cervello, perché li illudi di potersi difendere dalle ingiustizie.

Caro giardiniere di via D’Amelio, ci ho pensato molto, e penso tu abbia torto. Potremmo anche non sapere nulla sulla mafia, noi del continente, in fondo non viviamo lì. Ma sulla memoria di Falcone e Borsellino credo che tu stia sbagliando. Perché loro non sono un simbolo della Sicilia, ma dello Stato intero. C’è la retorica, questo è innegabile, ma c’è anche tanta ignoranza sul caso. Bisogna invece raccontare queste storie, affinché le generazioni future abbiano il vaccino contro le mafie. E non si venga a dire che questo è sciacallaggio perché ci sono processi tuttora in corso sui fatti citati. La mafia è una piaga sociale. Anzi, “è una montagna di merda”. Con la voce rotta hai detto che il destino ti aveva condotto a via D’Amelio, forse potrei dire lo stesso.

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