Gruppi che inneggiano al maschilismo più becero e alla riduzione della donna a mero oggetto sessuale: questa è la nuova “moda” che da un po’ si è andata diffondendo su Facebook. Un machismo 2.0 che evidenzia una silenziosa e preoccupante involuzione culturale, oltre che rendere sempre più necessaria una maggiore attenzione all’educazione sentimentale e sessuale.
Per fare capire il seguito che hanno gruppi del genere, basti considerare che il gruppo “Cagne in calore” conta un numero di iscritti superiore ai 18mila, dove vi sono utenti e con occupazioni lavorative abbastanza importanti che condividono le foto delle loro compagne, accompagnandole con messaggi del genere: “Come dorme la mia dolce metà! Cosa ne dite?”.
Oltre che ad essere un’azione di una viltà e cattiveria imbarazzante, scatena gli altri iscritti a mostrare tutto il loro basso quoziente intellettivo e il maschilismo che li contraddistingue. Infatti tra le risposte, vi è un utente che commenta così: “Se vuoi vengo a darti una mano, e mentre me la faccio (…): vedrai che dopo i primi colpi comincia a godere come non ha mai goduto”.
L’unico elemento positivo di questi gruppi è vedere quanto l’opinione pubblica sia unita nel condannare e nell’impegnarsi attivamente per segnalarli ed eliminarli dal social. Peccato, però, che aumentino ogni giorno di più e che non sempre le segnalazioni vengano prese in seria considerazione da Facebook.
Si tratta di un fenomeno che si sta diffondendo in maniera capillare, tanto che a inizio anno è stato rimosso un gruppo francofono “Babylone 2.0”: qui l’unica regola era la condivisione, in massa, di foto delle conquiste degli iscritti, accompagnate da testi con numerosi insulti sessisti.
Ma di solito, nei gruppi in questione, vengono caricate istantanee di vita quotidiana delle ragazze,quasi sempre prelevate a loro insaputa dai vari profili privati; inoltre non è solo su Facebook che avviene la condivisione ma anche attraverso Whatsapp o chat di altri social tanto da rendere la diffusione molto veloce e difficile da contrastare.
Tra i tanti assidui frequentatori, vi sono coloro che vivono una sorta di “doppia vita”: nei loro profili privati condividono articoli che puntano a condannare la violenza sulle donne ma poi in gruppi dai nomi alquanto espliciti, come “Seghe e sborrate su mie amiche”, postano immagini di ragazze da offrire in pasto ai loro “simili” perché colpevoli di avere “labbra da pompinara”.
In questa categoria rientrano anche uomini sposati che molto spesso si lamentano con gli altri utenti delle mogli che si rifiutano di avere rapporti sessuali con più persone. E allora che fare? Condividere le foto che le mostrano in primi piani anatomici, così da ricevere la “solidarietà” degli altri uomini e qualcuno si candida pure a farle cambiare idea. Ma uno dei mariti in questione frena l’entusiasmo con un laconico “è troppo seria, purtroppo”.
In questa sorta di “tritacarne social” era finita anche Tiziana Cantone, coinvolta in un revenge porn che l’ha spinta anche a suicidarsi. Con questo termine inglese si intende la pubblicazione di foto intime o video sessuali che riprendono l’ex fidanzata per prendersi una sorta di vendetta.
Ancora in Italia, purtroppo, manca una legge specifica sul revenge porn che protegga le vittime come invece accade in Israele, Germania, Regno Unito, Australia e 34 stati degli Stati Uniti.
Molto spesso accade che chi condivide le foto delle ignare ragazze, fornisca anche l’indirizzo dove trovarle così da favorire il passaggio repentino da realtà virtuale a vita reale, da violenza virtuale a violenza fisica.
A conti fatti il “cyberbullismo”, che colpisce le donne e il loro corpo, corre il rischio di trasformarsi anche in uno strumento per favorire l’aumento degli stupri e della mentalità maschilista che molto spesso ne è la causa.
Esiste uno strumento legislativo che tutela le donne, da questo prelievo illegittimo di foto private, ed è l’articolo 167 del codice della privacy: sono previsti da uno a sei mesi di reclusione. Ma come dimostrano questi gruppi, viene garantita una sorta di impunità agli iscritti visto che sono liberi di condividere ogni foto privata delle loro amiche, sorelle, mogli o semplici sconosciute.
Proprio per questo in molte, quando scoprono di essere presenti in questi gruppi, non presentano una denuncia alla Polizia postale: la sostanziale impunità garantita agli iscritti e la mancanza di reali controlli interni da parte di Facebook, le convince del fatto che non esiste una soluzione reale che tuteli la loro dignità.
Dorotea Di Grazia