Nel 2017 Samwel Nangiria, un cittadino cheniota, ha riconosciuto un centinaio di opere e manufatti Maasai che erano stati trafugati dal suo Paese ai tempi del colonialismo. Si trovano nel Pitt Rivers Museum di Oxford e, a distanza di cinque anni, due settimane fa il museo ne ha negata la restituzione.
Oggetti Maasai rubati?
Nel XIX secolo, con l’imperialismo degli Stati europei l’Africa divenne un’insieme di colonie inglesi, francesi, tedesche, italiane, portoghesi e spagnole. Tale processo non solo portò all’instaurazione di insediamenti europei, bensì anche l’espropriazione di oggetti africani, tra cui anche quelli Maasai.
Questi oggetti appartenevano all’omonimo popolo dei Maasai, circa un secolo fa stanziato tra il Kenya e la Tanzania. I Maasai, che conducevano uno stile di vita nomade dedicandosi all’allevamento transumante, come gli altri popoli africani furono vittime dello sfruttamento coloniale europeo. Di conseguenza, finirono per dipendere da poche società commerciali e non ricevettero alcuna dignità umana.
In tutto questo, diverse persone europee quali ricercatori, governatori coloniali e ufficiali militari con facilità e molta libertà saccheggiarono o s’impadronirono di oggetti Maasai. Il motivo per cui avveniva era abbastanza semplice. I popoli africani, infatti, per il loro scarso sviluppo tecnologico e il frammentarismo non erano in alcun modo capaci di opporsi alle potenze coloniali. Pertanto, ogni europeo, inseguendo l’imperialismo e usando la proprio forza militare, poteva fare qualsiasi cosa con loro.
Così facendo diversi musei si ritrovarono ad avere una serie di oggetti di notevole importanza storica e culturale per l’omonimo popolo. Tra quelli identificati, al giorno d’oggi all’interno del Pitt Rivers Museum di Oxford ne troviamo 148 secondo quanto dichiarato dalla Direttrice del museo. Un numero impressionante, che ha sollevato tra dei cittadini chenioti delle questioni di non poco conto, in particolar modo per Samwel Nangiria.
Samwel Nangiria e la sua scoperta
Samwel Nangiria, cittadino cheniota masaai e attivista per i diritti umani, nel 2017 ha visitato il Pitt Rivers Museum. Ha scoperto così una serie di cimeli di famiglia, più d’un centinaio grossomodo, secondo lui venduti agli europei per non morire di povertà. Domandando della loro presenza alla Direttrice, quest’ultima ha detto che sono per larga parte “regali” dei Masaai e solo cinque presi per errore. Ciononostante, per la loro presenza nel museo i leader Maasai hanno ammesso a seguito di provare fastidio. In particolare, però, assieme a Samwel loro comunque si lamentavano di alcuni oggetti al suo interno. Si tratta di una collana ereditaria, un braccialetto ereditario tramandato di padre in figlio e un orecchino. E non solo: abbiamo anche un ornamento della testa indossato da giovani donne dopo la circoncisione e un ornamento del collo indossato da donne sposate. Questi oggetti, cinque in tutto, secondo le usanze Maasai non possono mai essere presi in prestito, né venduti né regalati.
Il Pitt Rivers Museum, a seguito di questa reazione da parte dei leader Maasai, ha fornito nel suo sito dettagli sugli oggetti culturalmente sensibili. Tutti e cinque finirono acquistati nelle mani di Alfred Claud Hollis, amministratore e scrittore britannico che trascorse gran parte della sua carriera in Africa orientale. «Questi oggetti non sono mai stati esposti o studiati pubblicamente, probabilmente a causa della limitata documentazione storica e della mancanza di interesse per la ricerca nelle collezioni Maasai», afferma inoltre il Pitt Rivers Museum su una sua pagina web.
«La loro assenza da una famiglia si crede di incorrere in sfortuna, pertanto la presenza degli oggetti nel museo continua a causare danni ai discendenti», ha dichiarato il Pitt Rivers sulla medesima. E lo sa perché a seguito delle reazione dei leader Maasai ha «fatto affidamento ad anziani tradizionali Maasai per quanto riguarda la cura di questo oggetti». Il museo alluderebbe quindi a una possibile rappacificazione con i leader Maasai e ci sono stati in effetti dei ravvicinamenti.
Cosa si è fatto?
La visita del 2017 ha portato alla creazione del progetto Maasai Living Cultures. Esso è frutto della collaborazione tra il Pitt Rivers Museum e i leader della comunità Maasai. Il progetto inoltre è coadiuvato con InsightShare, un’organizzazione con sede a Oxford che sostiene popolazioni indigene per proteggere territori, lingue e culture utilizzando video partecipativi.
Famiglie Maasai coinvolte nei cimeli grazie a questo progetto hanno ricevuto tra il 26 giugno e il 5 luglio un “dono simbolico di vacche”. Nello specifico, famiglie Sululu, Mpaima, Sayialel e Moneka in Chenia hanno ricevuto 98 mucche per svolgere cerimonie. Le mucche, finanziate dall’organizzazione Staples Trust, servono a un processo di “riparazione”. «Speriamo (…) abbia un impatto significativo sulle famiglie Maasai (…)» ha dichiarato la Direttrice del Rivers Pitt menzionando le guerre e la colonizzazione africane.
La Direttrice degli studi museali di Oxford ha inoltre ribadito che il Rivers Pitt ha 148 manufatti Maasai di epoca coloniale, ma che solo cinque identificati come cimeli di famiglia “culturalmente sensibili”. Inoltre solo quest’ultimi a detta sua sarebbero gli oggetti sottratti per sbaglio, mentre tutti gli altri rappresenterebbero un regalo. Il che ha scatenato diverse reazioni, a partire dal governatore locale di Narok, in Kenya, Patrick Ntutu. Quest’ultimo, rappresentando le famiglie Maasai sottratte dei loro cimeli di famiglia, obietta sulla dichiarazione dei manufatti. «Riteniamo che i proprietari siano stati uccisi o mutilati prima che gli ornamenti fossero portati via da loro», rivela ai giornalisti. Sono d’accordo con lui i ricercatori, un’amministratore e i parlamentari.
Seka ole Sululu, portavoce delle famiglie Maasai per i manufatti sottratti, tuttavia ha rilasciato sempre su Nation una promettente dichiarazione da parte delle famiglie. Quest’ultime infatti «hanno scelto di perseguire la riconciliazione pacifica (…) ma si aspettano ancora un risarcimento adeguato».
Cosa ci possiamo aspettare?
La risposta alla reazione dei Maasai da parte del museo non ha il alcun modo risarcito i danni causati dalla sottrazione dei manufatti. Anzi, proprio il fatto di aver voluto ripagare con delle vacche, che per il popolo rappresentano una fonte di ricchezza, forza e guarigione, ha esacerbato una situazione già ingiusta di per sé. Infatti tale dono simbolico rappresenta un modo per non voler restituire, almeno per il momento, degli oggetti importanti.
E importanti, per giunta, non sono solo quei cinque oggetti culturalmente sensibili ai Maasai di cui si fa riferimento, ma tutti quelli sottratti. Rubare degli oggetti infatti che hanno un rilievo culturale per queste persone priva loro di una identità storica e culturale. Li fa sentire parzialmente sottratti di qualcosa se non proprio svuotati dalla mancanza di una loro cultura. E gli effetti si fanno sentire andando avanti con il tempo, quando la memoria di una cultura sbiadisce e la stessa va a modificarsi per opera dell’ambiente esterno.
Bisogna intervenire subito affinché il popolo Maasai abbia ciò che merita di avere in tutto e per tutto. Altrimenti, aggrappandoci alla nostre “ricchezze” rubate e a i loro rispettivi privilegi in termini di prestigio, staremmo ancora noi europei sostenendo una cultura imperialista retrograda. Non possiamo più infatti oggigiorno rivendicare nei nostri musei l’espropriazione ingiusta di altre opere e il loro conseguente dominio a livello politico, economico e culturale. Soprattutto non dovremmo più oggi supportare che nei musei si trovino manufatti che non ci appartengono culturalmente. A maggior ragione se per noi tali oggetti rappresentano una fonte di memoria, conoscenza, emozione e cultura non dobbiamo supportarlo.
Dobbiamo fare i conti con i nostri fantasmi del passato e saper rinascere sotto una luce più giusta. E non solo per quanto riguarda i Maasai, ma anche per tutte gli altri popoli africani. Dovremmo estendere questo pensiero anche per tutti gli oggetti che si ritrovano nei musei e che non appartengono a noi. Speriamo comunque per il momento che questo popolo abbia ciò che merita, anche se in Kenya le cose non vanno per il verso giusto.