Di Francesca de Carolis
Ancora nulla è chiaro della vicenda di Ardea. L’unica cosa certa, leggo, è che l’omicida “non fosse in cura per problemi mentali”, anche se alcuni vicini dicono “fosse uscito da pochi giorni da un centro di igiene mentale”, che lo scorso anno avesse avuto una denuncia per minacce alla madre, che in casa aveva, nascosta, la pistola d’ordinanza del padre, guardia giurata, scomparso l’anno scorso, mentre si cerca di capire se avesse agito sotto l’influenza di “farmaci”… Rimane la terribile verità della morte di due bambini e di un anziano nel parco di Ardea, mentre si cerca di capire il perché del gesto di quel giovane uomo, definito persona “disturbata e con manie di persecuzione”, che alla fine s’è ucciso.
Ed ecco che si parla di “follia omicida”, subito si alzano voci contro la legge Basaglia “che ha chiuso i manicomi” e tutto il corollario che sempre davanti a dolorosi episodi come questo ritorna in campo, a dar man forte a tentazioni di “restaurazione” che purtroppo già tentano di disfare quel che di straordinario, pur tra tante difficoltà, finora è stato fatto…
Eppure, qualcosa va ribadita. Soprattutto l’importanza e l’utilità del pensiero di Basaglia tanto più oggi “davanti alle nuove forme di segregazione, alla biopolitica, alla tendenza a nascondere le forme sociali del disagio…”, alla tendenza a negare la complessità delle cose. Che è quello che facciamo con tutto ciò che non ci piace e non vogliamo riconoscere parte della società: matti, malati, clandestini, devianti, delinquenti…
La legge voluta da Basaglia, una volta negata l’istituzione, una volta liberato “l’uomo” da quell’orrore che sono stati i manicomi, ha aperto la strada a pensare e progettare nuove istituzioni della salute mentale: servizi territoriali, centri che siano aperti notte e giorno, per ricollocare le vite prima recluse in una città che possa riaccoglierle, seguirle, conoscerle, curarle.
Ma cosa è successo delle linee guida della 180 nella sua traduzione a livello regionale?
La realtà è che a livello regionale, ognuno si è mosso a modo suo (e con questo la legge Basaglia non c’entra proprio nulla) o non si è mosso affatto. Una questione “vecchia”, piena di ombre e vuoti che questi tempi di pandemia hanno esasperato, in un Paese, il nostro, che per la salute mentale non arriva a spendere il 3 per cento del budget nazionale della Sanità. Mentre Francia e Inghilterra, per citarne due, riservano alla salute mentale fino al 10-15 per cento della spesa sanitaria.
Cosa ne è dei luoghi di cura? Cosa ne è dei servizi di salute mentale? E’ da queste domande che bisogna partire, “perché – non smette mai di ripetere Peppe dell’Acqua, che è stato per anni direttore del Centro di salute mentale di Trieste – non c’entra Basaglia, ma c’entrano le carenze organizzative, le amministrazioni regionali, le culture psichiatriche che sono ritornate a quello che era prima della legge Basaglia”. E, carico del dolore per quanto accaduto, nel suo intervento su radio tre, questa mattina…:
“Quell’uomo aveva bisogno di cura, di essere seguito, e non essere rimandato a casa con alcune medicine… Cosa fa la regione Lazio?… Scandalosa non è la 180, ma scandalosi sono i centri di diagnosi e cura affollati, la disorganizzazione… Fatti come quello di Ardea non dovrebbero accadere dove ci fossero servizi di salute mentale comunitari disposti ad accogliere, sufficientemente attrezzati con la giusta cultura”.
Ma quanto ne siamo lontani?
La sezione italiana della World Association for Psychosocial Rehabilitation (WAPR), nel suo sguardo sulla realtà italiana tutta, parla di servizi troppo spesso frammentati e non comunicanti, carichi delle insoddisfazioni degli operatori, troppo pochi per garantire livelli essenziali di assistenza, cura e riabilitazione, mentre tanta è “la delusione delle persone che non riescono a raggiungere i loro obiettivi di vita e la fatica dei familiari che spesso si sentono troppo soli nella gestione del progetto di vita della persona malata”. E in questo quadro dobbiamo ragionare su ciò che è accaduto.
Un cenno ad altra questione, non eludibile dopo quello che è accaduto ad Ardea. Riguarda le persone con malattie mentali che abbiano commesso reato. Ho sentito alla radio il lamento di un ascoltatore:
“Quale punizione per l’omicida? Ci sarà l’incapacità di intendere e di volere e tutto finisce lì”.
Ecco, il nodo è tutto nella norma che inchioda il malato di mente che abbia commesso reato alla irresponsabilità penale. A guardarla bene, questa eredità del codice Rocco, è una sorta di maledizione, perché produce una pericolosità da cui nessuna pena potrà mondare, essendo irresponsabile, e quindi pericoloso per sempre, per sempre imprigionato, ieri erano gli Ospedali psichiatrici, oggi le Rems, che Antigone definisce “istituzioni totali diverse nel nome, ma del tutto assimilabili sul piano ontologico”
Ebbene, una via d’uscita ci sarebbe, ed è stata sperimentata in Brasile, a Belo Horizonte: “restituire alla persona la responsabilità, quindi l’essere una persona”.
Si tratta di un “programma d’attenzione integrale” che prevede l’intervento congiunto di avvocati, psicologi, psichiatri, assistenti sociali… che si occupano della responsabilizzazione dei pazienti psichiatrici che hanno commesso un reato. I dettagli, interessantissimi, per chi voglia approfondire, in “Una via d’uscita” di Virgilio del Mattos (collana 180, Alphabeta Verlag).
Qui accenno solo al fatto che viene ribaltato il concetto di non imputabilità del paziente psichiatrico pensato come un elemento di “garanzia”. Una rivoluzione “copernicana” che restituisce responsabilità alla persona, e con effetti sorprendenti se accade che un paziente, durante il percorso del programma, dica: “io ho capito le ragioni del mio atto. Questo mi dà una capacità di controllo”. E la dignità di affrontare e scontare una pena…
Infine, a proposito di “follia omicida”, due paroline che tornano a rimbalzare e che tutto vogliono dire e nulla dicono… Proprio alcuni studi condotti sul “Programma d’attenzione integrale” hanno dimostrato che fra la follia e l’atto violento non c’è il nulla. Spesso ci sono segnali che le persone manifestano prima di compiere reati.
E il cerchio di chiude. Ritorniamo alla necessità dei servizi territoriali, della conoscenza, dell’attenzione, della cura…