– Di Francesca de Carolis –
Le cose sono nelle parole con le quali le pronunciamo, e ci sono parole urlate in questi giorni, dopo la fuga dei ragazzi dall’istituto minorile del Beccaria, che fanno venire i brividi.
Lasciamo perdere lo sconcertante “sconcerto” espresso a tambur battente da un ministro delle infrastrutture, mentre il garantista ministro della giustizia sembra sotterrato da tanto, ancor più sconcertante, silenzio.
Mi fermo sulle parole del sottosegretario alla giustizia, il leghista Andrea Ostellari, che al ministro delle infrastrutture fa buon eco, rincara da subito con toni da safari, e oggi, dopo il rientro in carcere di alcuni dei fuggitivi, proclama:
“Siamo vicini alla cattura!”. Più precisamene un’agenzia riporta: “Siamo vicini, speriamo di esserlo, per quanto riguarda la cattura anche degli altri soggetti che sono fuggiti”.
Come alludendo a criminali armati fino ai denti. Certo, perfettamente in linea con la retorica del nemico alla quale la Lega, e non solo lei, ci ha ben abituati.
E quanto rumore, quanto tremore mette nelle nostre anime quel verbo “catturare”, che sappiamo riservato a belve feroci. E quanto spregio è in quel “soggetti” usato per definire quattro ragazzi in fuga. Una parola urlata, che sottende “paura” (che dobbiamo avere) e “pugno di ferro” (che bisogna usare), quanto più rimane infilzata nei nostri condizionabili cervelli, a scacciare via tante parole di sensatezza che pure sono state pronunciate.
Come quelle di Don Rigoldi, il cappellano che quei ragazzi ben conosce: “L’hanno vissuta come un’avventura, a quell’età non si rendono conto”. E ne ricorda le storie difficili, la frustrazione di questi giorni, che anche per loro è Natale…
O quelle del capo del dipartimento della Giustizia minorile, Gemma Tuccillo: “Non sono buonista, ma dobbiamo tenere conto della loro fragilità”, e pure dichiara di credere profondamente nel valore della giustizia riparativa.
O quelle di Mauro Palma, garante nazionale delle persone private della libertà:
“Sarebbe sbagliato cogliere questo grave episodio per gettare disvalore verso un sistema, quello della giustizia minorile, che funziona e che ha visto negli anni importanti successi di reinserimento positivo di giovani nella vita esterna”. Mentre invita a ragionare sulla “maggiore difficoltà che la privazione della libertà determina oggi in giovani complessivamente più fragili che in passato. In particolare, perché hanno costruito, e costruiscono, la propria apparente identità attraverso sistemi virtuali di comunicazione che hanno una scarsa capacità di connessione con la durezza di una situazione reale quale è la privazione della libertà”.
O, ancora, la domanda di Tiziana Maiolo:
“Ma che ci fanno quei ragazzi in galera?”
E molto ci sarebbe da fermarsi a riflettere anche sulle loro storie, che non essere frastornati da parole che aizzano solo alla ferocia.
Certo, siamo pur sempre il paese in cui tre anni fa c’è stata una proposta di legge per abbassare l’età dell’imputabilità (12 anni anziché gli attuali 14), il paese che ha cercato di introdurre anche per i minorenni il meccanismo dell’ostatività. Pensate un po’ che oscenità…
Ma la domanda rimane: che ci fanno quei ragazzi in carcere?
Io sono convinta, lo ripeto spesso, che il carcere non serva a nessuno, che sia piuttosto criminogeno e pericoloso. Ma ancor di più lo è per i ragazzi, nell’età più complessa, delicata della vita, che tutto il futuro può condizionare.
Perché il carcere è terribilmente uguale per tutti. L’ho capito ascoltando anni fa la testimonianza di un giovane volontario. Giovane, bravissimo e cieco. Che in un carcere minorile aveva messo in piedi una radio, che conduceva insieme ai ragazzi.
Nessuno come lui mi ha dato il senso della carcerazione, della chiusura al mondo che nella sostanza un carcere è. Lui che il carcere l’ha “visto” attraverso i rumori, ché all’attenzione della mente di chi non vede nulla sfugge.
I rumori, mi ha raccontato, hanno il sapore del ferro: lo sbattere di cancelli di ferro che si aprono, di cancelli di ferro che si chiudono, il rumore del ferro delle chiavi che aprono, le chiavi che richiudono. E meglio di chiunque altro ha “visto” quel lungo tunnel nero e ferroso che non lascia respiro. Perché questo il carcere è.