Débâcle M5S: Conte non esclude le dimissioni

M5S

Per il M5S è tempo di riflessioni. “È venuto il momento di avere una grande assemblea collettiva, un’assemblea costituente, con la partecipazione di tutti gli iscritti”. Con queste parole Giuseppe Conte lancia la kermesse dei militanti, ai quali non nasconde le proprie responsabilità per la débâcle delle europee e non esclude le dimissioni dalla testa del movimento qualora lo si additasse come principale colpevole del fallimento. Si è espresso anche Davide Casaleggio, per il quale “Conte dovrebbe dimettersi”.

Il processo interno era inevitabile dopo il deludente 9,99%, percentuale “da Lidl” hanno ironizzato i più sadici. Ieri sera Giuseppe Conte ha riunito i parlamentari 5S, ai quali ha annunciato di voler organizzare un’assemblea per «approfondire con franchezza le ragioni di questa sconfitta». Ha poi riconosciuto le proprie responsabilità per la débâcle elettorale e addirittura si è detto pronto alle dimissioni se la comunità del Movimento 5 Stelle dovesse ritenere un peso la sua guida: «La mia guida rimane e rimarrà sempre e solo funzionale agli interessi superiori della nostra comunità».

Comunque le eventuali dimissioni di Conte non farebbero da parafulmine ai problemi del movimento. C’è da riflettere sulle ragioni più profonde che hanno portato i 5S ad uscire dalle urne europee con le ossa rotte. L’assemblea è stata convocata proprio per questo. Bisogna capire quanto quel 9,99% dipenda dall’astensionismo -soprattutto al sud- e quanto dalla struttura stessa del movimento, troppo barricadiero e troppo poco radicato sul territorio. Alcuni parlamentari 5S hanno spiegato che l’assemblea servirà a “discutere insieme del miglioramento delle regole e a definire le modifiche che riterremo necessarie“.

Tradotto: va bene rilevare le défaillances di Conte, ma imputare solo a queste il fallimento delle europee significherebbe nascondersi dietro una foglia di fico. Ci sono da definire dei punti. Primo fra tutti il vincolo del secondo mandato, che ha impedito a diversi volti noti del movimento di candidarsi alle europee, con le conseguenze che oramai sono note.


Insomma, c’è da sacrificare uno storico pilastro identitario del movimento per avere un riscontro elettorale, cioè non escludere ideologicamente chi ha già svolto due mandati. Ma questo farebbe cadere i 5S in un paradosso di fondo: abolendo il vincolo dei due mandati crollerebbe uno di quei tratti identitari che hanno dato ai pentastellati l’immagine di movimento “anti-partito” (anti-sistema, anti-palazzo, anti-casta), un’immagine che tante fortune ha portato nelle tornate elettorali di qualche anno fa. La questione non è facile da dirimere. I 5S sono a un bivio: continuare a presentarsi come un movimento o diventare un partito.

Casaleggio figlio

Davide Casaleggio, figlio del compianto Gianroberto, fondatore, con Beppe Grillo, del Movimento Cinque Stelle, ce l’ha per tutti. Innanzitutto non risparmia parole a Giuseppe Conte, paragonandolo a un amministratore delegato incapace di gestire un’azienda. Poi si esprime sull’idea di alcuni militanti di snaturare il M5S, cioè sull’intenzione di trasformare il movimento in un partito “unipersonale“, prefigurando il rischio di una perdita di quello spirito identitario che distingueva il movimento dalle altre forze politiche.

È proprio a questa perdita di identità -e quindi di riconoscibilità- che Davide Casaleggio imputa la débâcle dei 5S alle elezioni europee. La sua non è una voce che passa inosservata dalle parti di Via Nomentana, essendo il figlio di uno dei padri -si perdonerà il gioco di parole- di quel movimento nato nel 2009 che fece tremare le fondamenta del “palazzo”. Cioè di quei partiti che si portavano dietro la tanfa della “casta” e dell'”ordine costituito”, incapaci di intercettare quel malumore popolare nato dalla crisi del 2008, di cui invece il movimento seppe farsi abile portavoce.

Questa la dichiarazione completa di Davide Casaleggio:

«È un risultato disastroso. Quando prendemmo il 21% alle europee del 2014 Grillo si prese il Maalox. Adesso Macron con un 15% chiama le elezioni. Sicuramente servirà una decisione importante. Parlo da un punto di vista aziendale: un amministratore delegato che gestisse un’azienda in questo modo metterebbe a disposizione il proprio ruolo. Si è voluto trasformare un movimento di milioni di persone in un partito unipersonale, cambiando una regola alla volta e pensando di poter fare meglio. A ogni regola che è venuta meno si sono persi voti: alle politiche 6 milioni, qui altri 2 milioni. Credo sia necessario un po’ rivedere le cose».

Vincenzo Ciervo

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