David Lynch (1946) è ritornato poco tempo fa con la terza parte della storica serie Twin Peaks espandendo il suo cosmo artistico con una potenza ed una bellezza al calore bianco. Alla commozione per il ritorno dei nostri beniamini del piccolo schermo questo capolavoro rigenerato aggiunge in dose crescente la dimensione del sogno e dell’allucinazione con toni e colori più bui, uno stile avvolgente che non punta più al colore caldo delle prime due stagioni ma ai colori del limbo, del sospetto, dell’oscurità trionfante.
Pittore e regista eccelso, Lynch è il principe ereditario del surrealismo, ultimo di una serie di artisti che trasversalmente hanno occupato il cinema e la pittura. Fan di Fellini, è fratello nello spirito di Jodorowsky, Buñuel, Dalì più che di Mirò. Con lui il pop anni ’50 trova al contempo un amante e un dissacratore.
La sua arte, che influenza così tanto i lavori più estremi come Inland Empire e la già citata serie tv, è onnivora, organica, sensibile al deperimento, la distruzione, la corruzione. Concetti, questi, che pongono Lynch e i suoi spettatori a contatto con quella che Jung chiama l’Ombra, archetipo della personalità che precede lo svelamento dell’Essere, in cui tutto ciò che è negativo e bestiale è condensato.
Per i fan di Twin Peaks non sarà difficile riconoscere questo concetto in maniera più espansa nella creazione della Loggia Nera, di BOB e i famigerati doppelganger, incarnazione dei lati oscuri dei personaggi (con quello di Cooper ci sarà da divertirsi, a proposito).
Queste figure, se non già letterarie ed esoteriche, piene di richiami alla cultura europea e nativo-americana, sono anche degne discendenti della pittura dell’orrore. Nessuno ha usato questo termine in maniera sistematica con le opere di Lynch o Bacon ma è il termine più appropriato per descriverle.
Il fisico ribollente, quasi sul punto di auto-deformarsi, viscido, puzzolente, libidinoso, grondante svariati umori del corpo di BOB o quelli del Nano e del “braccio” derivano dalle sperimentazioni di Lynch e le applicazioni di vari materiali sulle sue tele, il ricordo vivido dei liquidi e delle rovine industriali di Philadelfia. Una città, questa, che Lynch visse fin dentro la pelle da giovane, sentendo malessere intenso, quasi tangibile e che già aveva ispirato le fisionomie deformi e abortite di Eraserhead.
Non sarà difficile accostare queste figure quasi sessuali ed ormonali al loro corrispettivo europeo, che s’impone non per il sentimento psicofisico ormonale quanto spirituale del regista americano ma per il fuoco distruttivo, il gusto dell’abominio e della corruzione della proporzione: le opere di Francis Bacon (1909-1992).
Come Bene già aveva detto, Bacon distrugge la committenza definitivamente, con un “amore intellettuale del Diavolo” che lo porta a deridere il rapporto tra pittura e potere, rivelando lo “scheletro sotto la pelle”. Si veda a proposito la versione di Velázquez e quella baconiana del ritratto di Innocenzo X.
Lynch non punta al politico quanto allo stato d’animo percepito e in questo rivela la sua presa sull’eredità artistica post-baconiana, che nel distacco specifico dai luoghi di potere è più politicamente marcata dei romantici, primi grandi artisti dell’interiorità assoluta.
Si veda pure questa concezione parodistica nel tocco con cui il mondo del cinema è tratteggiato in Mulholland Drive o il filtro che Lynch usa per guardare alla provincia americana in Velluto Blu o proprio in Twin Peaks. Non contiamo poi la vicinanza con gli ambienti di Edward Hopper nei suoi anomali “road movies”!
I volti di Lynch sono quelli di una normalità che crea e proietta attorno a sé delle secrezioni viventi del proprio inconscio, che siano braccia, personalità, effetti del subconscio collettivo. Felicissima davvero la frase del Morandini secondo cui il modo in cui Lynch tratteggia Twin Peaks è quello del racconto delle fasi di una malattia. La cisti spirituale di Twin Peaks non è tuttora guarita. Per sapere come andrà a finire non perdete i nuovi episodi della serie e nuove grandi immagini di un artista della cinepresa.
Questi versi del Petrarca potranno descrivere forse ciò che si prova di fronte alla più grande serie tv mai realizzata:
Raro un silenzio, un solitario orrore
D’ombrosa selva mai tanto mi piacque.(Sonnetto 143)