“Ripetuti casi di tortura, stupro e uccisione di indigeni
sia all’interno sia intorno a siti parte del Patrimonio naturale Mondiale”. E’ arrivata in occasione della Giornata internazionale del Patrimonio mondiale, la denuncia di Survival International all’Unesco, accusata di complicità nei casi di violazioni e abusi dei diritti umani delle popolazioni native in diversi luoghi del pianeta.
Quando venne istituita dall’International Council on Monuments and Sites (Icomos), il 18 aprile 1982, la Giornata internazionale del Patrimonio mondiale, nacque con lo spirito di sensibilizzare l’umanità sulla diversità del patrimonio culturale e sulla necessità di attuare politiche internazionali per proteggerlo e conservarlo. Lo scorso 18 aprile, a distanza di quarantadue anni dalla prima edizione, il Movimento Survival International ha colto l’occasione per denunciare le violenze e gli abusi che avvengono da anni in questi straordinari luoghi “naturali” in diverse parti del mondo. Nel rapporto intitolato #DecolonizeUNESCO, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni ha puntato direttamente il dito sull’UNESCO, accusata di complicità nello sfratto illegale e negli abusi delle popolazioni native.
Dalle violenze sui membri del popolo Baka nell’entroterra rigoglioso della foresta equatoriale dell’Africa centrale, alle brutali esecuzioni extragiudiziali, torture e arresti arbitrari nel Parco nazionale Kaziranga, in India, senza dimenticare gli stupri delle giovani donne di etnia Chepang nel Parco nazionale di Chitwan in Nepal; nelle loro indagini, i ricercatori di Survival International hanno raccolto numerose testimonianze di violazioni dei diritti umani ai danni di varie comunità indigene di Africa e Asia, consumatesi nei teatri naturali dichiarati patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.
La richiesta di Survival International all’agenzia delle Nazioni Unite è piuttosto chiara e non lascia spazio ad interpretazioni e fraintendimenti come emerge già dal titolo del rapporto: l’obiettivo è decolonizzare l’UNESCO, responsabile di muoversi ancora oggi nel contesto di una mentalità coloniale.
Il peccato originale che il movimento in difesa dei popoli nativi sparsi nel mondo, contesta al Braccio educativo, scientifico e culturale delle Nazioni Unite è l’insidiosa pervasività di idee coloniali e razziste sulla necessità di proteggere la “natura selvaggia” dai “pessimi locali”. Proprio questo modo di pensare – esplicitamente sostenuto in alcuni casi dagli stessi ideatori del concetto di Patrimonio Mondiale e inserito a corollario delle convenzioni e degli accordi UNESCO – sarebbe alla base della legittimazione dei ricorrenti episodi di violazioni dei diritti umani dei popoli indigeni e locali.
L’Unesco ha ignorato violazioni dei diritti umani in Tanzania, Congo e RD Congo
Il rapporto DecolonizeUNESCO riporta le testimonianze di violazioni e abusi perpetrati sulle popolazioni indigene che vivono all’interno dei siti africani patrimonio dell’UNESCO. Il primo caso analizzato riguarda l’area di conservazione del Ngorongoro, in Tanzania, dove la narrativa dei “troppi locali” attecchisce da decenni, ed è ora diventata la principale giustificazione che il governo tanzaniano usa per sfrattare i Masai dall’Area che confina con il Parco nazionale del Serengeti.
Istituita nel 1959 come area a uso multiplo – in cui la fauna selvatica avrebbe dovuto convivere con i pastori
Masai semi-nomadi – fin dai primi anni la riserva è stata definita dai conservazionisti più radicali come una zona soggetta ad un’altissima “pressione demografica” a causa della molesta presenza di popoli nativi. Nel 2024, dopo anni di denunce per arresti arbitrari, torture e pestaggi, le popolazioni indigene residenti in questi luoghi hanno visto accolta la loro richiesta di avviare un’indagine sulla crescente militarizzazione dell’area e la confisca illegale del loro bestiame. Tuttavia – si legge nel rapporto – quando la delegazione UNESCO si è decisa finalmente ad incontrare alcune persone selezionate dal governo, lo ha fatto senza informare i legittimi delegati dei Masai.
Del resto, l’obiettivo reale inseguito da Dodoma in questi anni è sempre stato quello di sfrattare i Masai dalla riserva, arrivando persino a tagliare i servizi di assistenza sociale e sanitaria per costringere la popolazione nativa a “reinsediarsi”. I ricercatori di Survival International hanno raccolto prove che dimostrano come le violazioni da parte del governo sarebbero avvenute con la complicità dell’UNESCO che si è limitata al solo riconoscimento del “Patrimonio culturale” della regione, ignorando la salvaguardia dei diritti territoriali dei Masai. “Il sostegno dell’UNESCO viene usato per sfrattarci. Siamo davvero stanchi e confusi, non sappiamo quando moriremo”, ha spiegato un leader masai intervistato dal movimento a sostegno dei popoli indigeni.
Il lungo calvario dei Batwa
Un copione simile si ripete da anni anche della Repubblica Democratica del Congo. Nell’ex territorio un tempo possesso personale del Re Leopoldo II del Belgio, si trova il Parco nazionale di Kahuzi-Biega – uno dei più antichi e importanti di tutto il continente – diventato Patrimonio dell’Umanità nel 1980 nonostante nell’area siano stati ben documentati abusi, tra cui stupri e torture.
Il rapporto di Survival International accusa l’UNESCO di aver svolto un ruolo chiave nel riconoscimento e nella legittimazione di molte delle più famose Aree Protette dello stato, tacendo ancora una volta sulle atrocità ben documentate commesse sotto i suoi occhi. Tra le vittime del silenzio colpevole dell’UNESCO nella regione del sud Kivu, c’è il gruppo etnico dei Batwa. Un tempo autosufficienti, ma ora sfrattati dai loro territori e costretti a vivere sotto lo stigma della discriminazione e della povertà, i membri Batwa sopravvissuti ai decennali cicli di reinsedimento forzato, sono tornati nel 2018 – dopo numerose promesse di risarcimento e giustizia mai mantenute – alle loro terre ancestrali nell’estremo tentativo di trovare una sistemazione stabile. Ma appena hanno rimesso piede nei territori di Kahuzi-Biega il loro supplizio è ricominciato esattamente dal punto in cui si era interrotto.
Nel 2019, le autorità preposte alla salvaguardia della riserva, sostenute dall’esercito congolese (FARDC), hanno avviato un’operazione di “pulizia” della foresta distruggendo gli insediamenti Batwa e scatenando una nuova ondata di violenze.
Survival International sottolinea che nonostante il Comitato per il Patrimonio Mondiale ha esortato a più riprese il governo congolese a ridurre la “dipendenza” delle comunità locali “dalle risorse del Parco” prima, durante e dopo queste nuove campagne di pulizia etnica, le richieste sono state sempre disattese o hanno ottenuto scarsi risultati. Da parte sua, anche l’UNESCO ha preferito non esporsi eccessivamente con le autorità di Kinshasa, evitando di affrontare le questioni legate alle evacuazioni degli occupanti illegali e alla crescente pressione dell’invasione della proprietà.
Il silenzio dell’UNESCO sulle atrocità dei Baka
Situato nella parte nordoccidentale della Repubblica del Congo, il Parco di Odzala-Kokoua è uno dei più grandi del continente nero – si estende per 13.867 kmq in un’area grande quasi la metà del Belgio – dichiarato riserva di Odzala nel 1935 dall’amministrazione coloniale francese. Il Parco deve la sua fama ai possenti gorilla che vivono nelle grandi pianura occidentali e agli elefanti della foresta; ma tra le sterminate foreste equatoriali dell’area protetta vive anche il popolo nativo dei Baka. Appartenenti al gruppo etnico dei pigmoidi, questi cacciatori-raccoglitori nati nel cuore dell’africa centrale sono divenuti tristemente famosi per le sistematiche violazioni dei più elementari diritti territoriali cui sono sottoposti da decenni.
Dal 2010, il Parco è gestito dall’organizzazione per la conservazione African Parks, che proprio in quell’anno ha stipulato un accordo di 25 anni con il governo della Repubblica del Congo. Il rapporto conferma l’approccio adottato da African Parks verso i popoli indigeni e consistente nella militarizzazione delle aree sottoposte alla tutela internazionale.
La maggior parte degli abusi si registrano su coloro che cercano di entrare nella loro terra per nutrire le loro famiglie o visitare i loro luoghi sacri. Alcuni individui appartenenti alle tribù dei Baka hanno riferito a Survival International che negli ultimi anni i guardaparco hanno aumentato la frequenza dei loro crimini nei confronti di donne e minori. Un dato, questo, confermato dal crescente numero di stupri registrati nell’area della riserva naturale di Ozdala. Eppure, l’intera area vanta lo status di Riserva Biosfera UNESCO dal 1977, mentre nel settembre 2023 è toccato alla foresta equatoriale di Odzala-Kokoua essere proclamata sito Patrimonio dell’Umanità, – nonostante le diffuse atrocità che avvengono sia all’interno che intorno al Parco nazionale.
Nel 2022 l’Agenzia delle Nazioni Unite ha chiesto al governo congolese di consultare la popolazione locale sulle modalità di gestione del parco, rimettendo di fatto la decisione finale nelle mani delle autorità nazionali. La richiesta presentata da Kinshasa l’anno successivo, ha ignorato totalmente le linee guida UNESCO sui popoli indigeni, in vigore dal 2019, che prescrivono, tra le altre cose, che i governi “devono consultare e cooperare in buona fede con i popoli indigeni interessati […] al fine di ottenere il loro consenso libero, previo e informato prima di includere i loro siti nella Lista Propositiva [candidatura]”.
La condotta dello stato congolese sul mancato riconoscimento dei diritti territoriali ai popoli indigeni, ha attirato critiche e perplessità anche da parte dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN), ma ciò non è servito a far retrocedere l’UNESCO dalla sua decisione di insignire ugualmente Odzala del titolo di Sito Patrimonio Mondiale “naturale”.
Popoli sotto assedio
Il rapporto di Survival International conferma uno scenario desolante in tema di violazioni dei diritti umani sui popoli indigeni in tutto il mondo. Le complicità dell’UNESCO di fronte a episodi di ricollocamento forzato e violazioni dei diritti territoriali sono la plastica dimostrazione di come l’idea di protezione degli ambienti “naturali” e dei paesaggi più famosi del mondo – compresi siti dichiarati Patrimonio dell’Umanità – sia ancora dipendente dal mito coloniale della “wilderness”, del sogno allucinato di una natura selvaggia, incontaminata e inviolata dall’uomo.
Il silenzio-assenso dell’Agenzia delle Nazioni Unite di fronte agli abusi e alle violenze che minacciano da decenni la conservazione dell’identità culturale dei popoli indigeni, ha contribuito a rafforzare questi miti pericolosi e le loro evidenti conseguenze per i gruppi etnici. D’altronde, è difficile non riconoscere come proprio sull’onda lunga di questo modo di pensare la salvaguardia dell’ambiente, l’idea ottocentesca della “conservazione fortezza” – ancora particolarmente in voga nella maggior parte dei circoli ambientalisti occidentali – sia riuscita a trovare un terreno particolarmente fertile negli ex territori coloniali perduti dalle potenze europee, non soltanto in Africa ma anche in Asia e America latina.
Nella scelta di proteggere la biodiversità a tutti costi non riconoscendo i i diritti dei popoli indigeni, l’UNESCO ha volontariamente posto l’ideale umanitario umanitario al servizio di una gigantesca ristrutturazione della geografia coloniale. Una tesi, questa, peraltro già presente nella visione del primo direttore dell’Agenzia, Julian Huxley, il quale identificò esplicitamente le popolazioni locali africane come un “ostacolo alla conservazione” a causa della loro “tendenza” ad utilizzare le risorse del territorio (legna da ardere, animali selvatici, erbe) per la propria sopravvivenza, sottraendole così alla disponibilità estetiche e materiali di colonizzatori e turisti occidentali.
A distanza di quasi ottant’anni dalla sua istituzione, l’atteggiamento dell’UNESCO non è cambiato: le scarse concessioni elargite con ritardo ai gruppi indigeni che abitano il cuore dell’africa nera o le alture del Nepal, finiscono sempre con il legittimare la prepotenza dei governi locali – i soli a decidere chi resta e chi parte, chi vive e chi muore. Quanto al progetto glorioso della “conservazione umanitaria”, oramai in frantumi, non resta che simulare lo slancio generoso di un mondo, quello occidentale, accorso a colmare il vuoto umanitario di una tragedia voluta, creata.
Tommaso Di Caprio